Una realtà nuova, invero un po’ particolare, sta affacciandosi nel mondo della emigrazione recente, quella, per intenderci, composta da tecnici di elevato livello che il nostro Paese sempre più spesso invia in ogni parte del mondo ed in particolare in quei Paesi del Terzo Mondo dove più sono pressanti bisogni e richieste di aiuto.
Sono tecnici che, come tutti gli altri loro colleghi, esprimono capacità di soffrire, intraprendenza, umanità, professionalità profonda e convinta, capacità intellettuali, ma si contraddistinguono perché indossano tutti lo stesso vestito, l’uniforme appunto.
Sono i militari, che si è poco abituati, in effetti, a scoprire impegnati in un lavoro fatto di cooperazione, di assistenza, di ricerca paziente di intese, condotto con serietà, determinazione ed impegno.
Il nostro Paese, deluso da passate esperienze, aveva preferito dimenticarli. Dimenticare anche che essi, nel corso degli anni, avevano contribuito a creare, nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, quelle condizioni di sicurezza e serenità che hanno consentito all’Europa occidentale di svilupparsi e progredire ed all’Italia di vivere il più lungo periodo di pace dall’unità.
Ed è dal lontano 1949 che essi hanno cominciato ad emigrare, sempre più numerosi, negli USA e nell’Europa del Nord, nell’indifferenza dei connazionali e spesso nella diffidenza dei nuovi compagni di lavoro. Hanno dovuto lavorare duramente per guadagnare la stima ed il prestigio necessari per attirare l’attenzione sul complesso scenario dell’area mediterranea, perché fosse chiaro anche ad altri, meno sensibili ai grandi mutamenti che si annunciavano, che l’asse della instabilità e del rischio stava spostandosi dalle frontiere orientali dell’Europa a quelle meridionali, che il tempo delle contrapposizioni frontali, dure e feroci, ma al tempo stesso chiare nel loro tremendo e minaccioso significato, stava stemperandosi su posizioni sempre più smussate, che il pericolo e la minaccia diventavano più subdoli ed insidiosi.
Ed accanto a queste attività più propriamente intellettuali, indirizzate cioè alla pianificazione dell’uso delle risorse, della realizzazione delle strutture, dell’impiego del personale e dei mezzi disponibili sono da inserire quelle attività più propriamente “di cantiere”.
Cominciata con poche persone ed in sordina, sull’onda dell’apprezzamento meritato e della stima guadagnata, questa attività “di cantiere” è stata richiesta sempre più spesso al nostro Paese e si è via via estesa, per il numero dei partecipanti e per le aree interessate.
L’esperienza del Libano durante la guerra civile, nel 1982, ha consentito di affrontare e risolvere problemi di mentalità, di mezzi, di addestramento, di fiducia in se stessi.
E da allora i “cantieri” non hanno fatto che aumentare, segno purtroppo della mancanza di pace in troppe regioni.
Quanti vacanzieri di Sharm-el-Sheik sanno ad esempio che dal 1982 il controllo della navigazione nel golfo di Aqaba è assicurato da un gruppo di pattugliatori navali della Marina Militare?
Per chi potesse confrontare le condizioni di vita, l’isolamento, le temperature del loro campo e di quelli della SNAM nei deserti sahariani non saprebbe cogliere sostanziali differenze nel modo di pensare e reagire di tecnici in borghese ed in divisa.
Kurdistan, Albania, Bosnia, Kosovo e da ultimo l’Iraq non sono che un susseguirsi di “cantieri” aperti ormai da anni per tentare di dare sicurezza a popolazioni disperate, per distribuire viveri, medicinali, abbigliamento, ricostruire le infrastrutture, curare i feriti e gli ammalati, riaprire le scuole, salvaguardare il patrimonio artistico.
Non dovrebbe esservi dubbio che anche questo personale é parte di quel fenomeno migratorio che dal nostro Paese ha portato nel mondo tecnici di elevato livello, capaci e stimati: tecnici senza dubbio di un genere un po’ particolare, troppo spesso associati al rombo dei cannoni, al dolore come se essi fossero soltanto causa e non anche vittime (e come non ricordare qui il sacrificio dei caduti di Nassirya), spesso considerati inutili, come pompieri quando non c’è incendio: in comune con questi ultimi essi hanno la preoccupazione di adottare tutte le misure possibili di prevenzione per evitare il fuoco e non di appiccarlo per dimostrare la loro utilità.
Essi, come i tecnici in borghese, danno un’immagine di efficienza, capacità organizzativa, preparazione professionale importante per l’immagine del nostro Paese, offrendo, nel contempo, un importante concorso al mantenimento della pace ed alla ricostruzione in aree colpite da instabilità con determinazione e fermezza, senza tuttavia mai dimenticare la loro appartenenza mediterranea, fatta di umanità, comprensione, abitudine alla convivenza ed al dialogo.
10 giugno 2004
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