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Orgoglio di essere italiano

AIE - Mi piacerebbe tanto scrivere, se il mio Direttore fosse d'accordo, un elogio dell'intempestività. Che è, come sapete, una delle bestie nere del giornalismo. Una delle regole d'oro, quando si fanno i giornali, è dar le notizie il più rapidamente possibile. La fast new ha di negativo che, una volta compiuto il suo ciclo, passa nel dimenticatoio; e invece andrebbe richiamata perfino anni dopo se si volesse sul serio apprezzarne l'importanza.

Ecco perché oggi indugio su un fatto accaduto a Roma qualche sera fa e al quale avrei dovuto e voluto - ma, lavorando all'estero, non ho potuto - partecipare. Se n'è parlato molto, sul momento; la Rai gli ha dedicato un lungo e fastoso servizio televisivo. Poi tutto è stato inghiottito dalle fauci dell'attualità: il tempestoso incontro dei ministri degli Esteri a Riva del Garda, le dimissioni di Abu Mazen, l'ultima uscita del Presidente del Consiglio sui giudici, Telekom-Serbia, le doglie del gioco del calcio e così via.

Non ci sto. Perché quella cosa che ho visto nella sera di venerdì 5, captando da Parigi il programma della Rai destinato alla pubblica premiazione dei nostri connazionali che vivono all'estero, mi ha inorgoglito e commosso. Come mi ha inorgoglito e commosso la notizia dell'ospedale di Baghdad gestito dalla nostra Croce Rossa, che pareva dovesse ripiegar le tende mentre la gente della capitale irakena gli si affollava intorno e gridava “Italiani non andatevene”.

Ho visto alcuni nostri governanti, divi dello spettacolo, vecchi e meno vecchi nostri connazionali che per anni, lontano, hanno lavorato sodo e nell'anonimato. Li ho visti riuniti sotto quel Vittoriano che mio padre mi ha insegnato a chiamare “l'Altare della Patria” cantare insieme il nostro Inno di Mameli, abbracciarsi, riconoscersi. Ho sentito lo splendido Inno Europeo. Ho visto render finalmente l'onore che merita a un grande galantuomo, a un vecchio soldato che da decenni ha fatto dell'onore la sua bandiera: al ministro Mirko Tremaglia, che questo pubblico riconoscimento del nostro Paese agli italiani che vivono lontano ha a lungo, tenacemente voluto. Ho sentito rendere omaggio a un mio caro fraterno amico, Marzio Tremaglia, il figlio di Mirko: un politico e un uomo di cultura di rara finezza e di straordinaria intelligenza che se avesse vissuto ancora (se n'è andato quarantenne) avrebbe cambiato anche il volto politico del nostro Paese.

Quando ho visto queste cose che mi hanno fatto commuovere ero reduce della lettura di un piccolo libro edito dalla Guerini e Associati: Cammina per me, Elsie. Ne è autore il collega Flavio Lucchesi, docente di Geografia nell'Università di Milano. È una storia bella, ben raccontata: una storia di ordinario eroismo. Quella di Giuseppe “Joe” Maffina e della sua famiglia, emigrati dalla Valtellina in Australia nel primo Novecento. È la storia di gente che è stata "extracomunitaria". Ch'è stata - come accadeva anche negli Stati Uniti - oggetto di discriminazioni, di pregiudizi, di minacce, di violenze. Ch'è stata oggetto della peggiore tra le forme di odio: l'odio dei poveri come te, che temono che tu venga da lontano a strappar loro il pane di bocca. Ch'è stata umiliata; che ha conosciuto anche il campo di concentramento. E che alla fine si è fatta strada e onore. Gente i cui nipoti hanno saputo onorare la loro nuova patria senza mai rinnegare l'antica. I La Guardia, i De Niro, i Giuliani, i Di Caprio sono venuti da lì. Altro che "solo mafia"…

Questa la realtà della stragrande maggioranza di quell'altra Italia, di quei sessanta milioni e passa di italiani o di gente d'origine italiana che vivono all'estero. E che sono un'autentica risorsa, una straordinaria ricchezza per noi. Tremaglia, uomo incapace di ragionare in termini utilitaristici (Dio lo benedica per questo), l'ha capito perfettamente, anche battendosi affinché avessero diritto al voto. Perché la nostra gloria storica, quella di noi italiani, non è di aver dominato il mondo in un certo momento della storia. Questo lo hanno fatto gli inglesi, i francesi, gli spagnoli. Noi no. Noialtri abbiamo insegnato al mondo le arti, la musica, l'amore del Bello. E, questo mondo, lo abbiamo davvero fecondato col nostro lavoro, col nostro sudore, con una scia di sangue. È venuto il momento di tirar le fila di questa gloriosa e dolorosa Diaspora. E' una delle molte - e ce ne sono - , autentiche ragioni d'orgoglio del nostro dirci Italiani.

Franco Cardini

 “Il Tempo” – 11 settembre 2003