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Relazione di Franco Santellocco

I rapporti tra l’Unione Europea ed il Maghreb: ipotesi di sviluppo

Contributo della presenza italiana nella Regione

RELAZIONE  FINALE

“IL CONFRONTO EURO-MEDITERRANEO E LA COOPERAZIONE”

(AIE) Premessa

Secondo il pensiero di molti autori, che scrutano la superficie del Mediterraneo come nell’antichità gli aruspici interpretavano il volo degli uccelli per trarre presagi buoni o funesti, assisteremo presto ad una deflagrazione tempestosa dalle conseguenze imprevedibili, spesso descritte come apocalittiche. Il Mediterraneo appare come una minaccia, un "mare instabile", un"mare di guai", in breve un "Mediterraneo amaro".

E questi autori enumerano tutti i fattori di deflagrazione: l’esplosione demografica, l’integralismo musulmano, il terrorismo, l’immigrazione, il conflitto arabo-israeliano e la trentina di altri conflitti aperti o latenti, il sottosviluppo, l’esaurimento delle risorse idriche, l’erosione del suolo e le tensioni economiche.

Francois Puaux afferma, senza giri di parole, che "il vecchio mare latino, culla della nostra civiltà, è in realtà un luogo di contraddizioni religiose, sociali e territoriali, il ridotto di conflitti multipli per lungo tempo insoluti".

In effetti il Mediterraneo unisce alle sue caratteristiche marine generali (spazio, mobilità, flessibilità d’impiego) la peculiarità di occupare una posizione unica come punto d’intersezione di tre continenti (Asia, Africa, Europa), all’incrocio di due assi (est-ovest e nord-sud) e come tratto di unione fra due Oceani (Atlantico e Indiano) e culla di tre religioni monoteiste.

Attraverso il Mediterraneo si svolge 1/6 del traffico marittimo mondiale e 1/3 del traffico petrolifero mondiale.

Ma questo mare semichiuso non è un mare come altri.

Per dirla con Fernand Braudel é un "complesso di mari: di mari ingombri d’isole, intersecati da penisole, circondati da coste frastagliate. La sua vita è intimamente legata a quella della terra, la sua storia non può essere dissociata dal mondo terrestre che lo circonda".

E la storia ci rammenta che chi ha detenuto il controllo del Mediterraneo ha avuto il controllo del commercio e quindi della stessa sopravvivenza di tutti i popoli rivieraschi. Fu il dominio del Mediterraneo che fece grande Roma per un millennio. E così fu per l’impero Ottomano, che conobbe il “principio della fine” in una battaglia tutta giocata sul mare: Lepanto.

Questi brevi cenni storici ci sono serviti per introdurre una domanda di non poco conto: esiste un futuro comune per i paesi del Mediterraneo? Risponderemo a questa domanda.

 Ma non lo faremo ricorrendo alla pratica seguita dai tanti “esegeti”, o aruspici di cui sopra, che prevedono catastrofi da uno scontro ineludibile fra il mondo cristiano ed il mondo musulmano tacciato, per altro, di essere profondamente fondamentalista, o integralista che dir si voglia.

«La conoscenza, unica via contro l'odio» … e contro le guerre, aggiungo io, estendendo un concetto di Franco Cardini che afferma in un suo scritto: "Filoislamismo e antislamismo sono infami e funesti come filoamericanismo e antiamericanismo, filosemitismo e antisemitismo",  e termina con parole lapidarie e conclusive: «l'odio è una funzione dell'ignoranza, punto e basta». Verità ancora più conclamata se stiamo alle parole di Gilles Kepel (Docente all'Istituto di studi politici di Parigi), il quale svolge un'interessante tesi dal titolo "Eutanasia per i fanatici" (v. Panorama n. 37/2002): «Dire che abbiano fallito (i terroristi, ndr) sembra assai contraddittorio quando la molta attenzione data a Osama bin Laden e seguaci ha garantito loro la visibilità che desideravano». E a supporto della tesi aggiunge: «… la maggior parte degli islamici ha seguito gli Imam che hanno rifiutato di appoggiarlo (Osama Bin Laden, ndr), visto che temevano di essere trascinati in un distruttivo confronto con l'Occidente». Dunque, contrariamente a quanto si sia indotti a credere, anche a causa di una “certa” informazione, l'Islam (che conta oltre un miliardo di fedeli) non sta marciando unito contro l'Occidente infedele, e non ha niente a che vedere con l'estremismo islamista che, a sua volta, non è una realtà compatta bensì frammentata in una miriade di divisioni ideologico-politiche in lotta fra loro. Anzi Magdi Allam nel suo libro Diario dall’Islam ci rammenta che le prime vittime del’integralismo islamico sono stati proprio i popoli musulmani che esprimono un Islam moderato. E allora, al di là degli scenari post bellici che si potranno delineare in Iraq, “resta il fatto incontrovertibile, scrive Raffaello Berry sul mensile Area, che la politica del muro contro muro tra Occidente e Islam non trova giustificazioni culturali, sociali e antropologiche, né tantomeno religiose”. Ma ciò che suona paradossale è che la querelle pro/contro l'islamismo sia potuta fiorire, e in una forma tanto scomposta, anche in un paese come l'Italia che, nella sua storia, ha mantenuto stretti contatti e buoni rapporti con nazioni islamiche come la Tunisia, il Marocco, la Giordania (la cui regina Rania, palestinese, svolge un importante ruolo nell'attività umanitaria internazionale), l'Egitto, la Siria, l’Iran e la Libia: tutti importantissimi partner economici e commerciali.

Questo è il nodo del problema. “Non esistono motivazioni di sorta, afferma sempre Raffaello Berry, che giustifichino l'abiura della convivenza plurimillenaria che ha legato fra loro le popolazioni del bacino mediterraneo”.

Non solo. Una politica estera informata ad  una generica e diffusa contrapposizione con l'islamismo non farebbe altro che indebolire i governi amici moderati dei paesi mediorientali, concedendo mano libera ai fondamentalisti che - facendo leva sull'ignoranza delle popolazioni -  potrebbero reclutare sempre più adepti alla causa del fanatismo religioso, con il risultato, per dirla con le parole di De Michelis, «…che proprio l'Italia si troverebbe ad essere pericolosamente esposta sulla prima linea di un confronto che rischia di degenerare pericolosamente in conflitto aperto e generalizzato».

Il Mediterraneo è stato per millenni un bacino di civiltà multietnico, multiculturale e multireligioso.  L'Italia oggi, sia per posizione geografica, sia per attitudine culturale, può tornare ad essere un ponte che colleghi l'Europa e il sud del Mediterraneo. Glielo può consentire uno strumento portentoso: il Partenariato euro-mediterraneo, area di libero scambio che dovrebbe assicurare, entro il 2010, pace e prosperità a tutte le Nazioni dell'area mediterranea. Un futuro di pace, che possa trasformare quest’area in un fattore di stabilità e prosperità a livello globale.

Motivazione che, del resto, è esplicitata nelle prime righe della Dichiarazione di Barcellona

(novembre 1995), così come nella posizione preparatoria espressa dal Consiglio Europeo di Cannes

(giugno 1995), e negli orientamenti espressi nei consigli di Lisbona (giugno 1992), Corfù

(giugno 1994), ed Essen (dicembre 1994).

Esiste dunque un futuro comune per i paesi del Mediterraneo.

Ma non un futuro pacifico assicurato da petizioni e da buoni principi, ma garantito da un meccanismo di promozione dello sviluppo e dalla progressiva integrazione dei paesi delle due sponde del Mediterraneo. In questi documenti è presente del resto la consapevolezza che tale processo sarà complesso e centrato su tre ambiti da sostenere contestualmente: un processo di integrazione politico e di sicurezza, uno economico e finanziario, uno sociale ed umano.

Ma prima di addentrarci in un’analisi puntuale sul futuro del confronto euro-mediterraneo e la possibile cooperazione  vogliamo ripercorrere un breve richiamo storico sui rapporti intercorsi da sempre fra i popoli rivieraschi.

Cenni storici

Qualsiasi discorso riguardo ad una cooperazione allo sviluppo rivolta verso l’Africa non può non passare attraverso l’Europa e l’Italia.

Questa profonda convinzione ci deriva dalla stessa analisi storica di questi due continenti, ciascuno a suo modo grande, che da secoli si confrontano su quello “spazio comune” che è il mar Mediterraneo.

Da una parte abbiamo l’Europa, una terra ricca di storia e di civiltà, che nel bene e nel male è stata protagonista e causa dei più importanti accadimenti storici.

Nata dalle ceneri dell’Impero Romano, centro di una religione che divenne politica, terra di incontro e scontro tra potere temporale e spirituale, tra economia sviluppata e tradizioni ancestrali, tra democrazia e antiche monarchie, tra socialismo e liberismo.

Nonostante  tutto  questo, i  popoli  europei  sono  riusciti  a  trovare  un  equilibrio  che  permette  loro  di  convivere  arricchendosi  delle  rispettive  diversità, seppur  pagando  questo  risultato  al  prezzo  di  due  Guerre  Mondiali.

L’Unione  Europea  è  proprio  questo: un  grande  esempio  di  civiltà, unica  nel  suo  genere: l’integrazione  perseguita  con  coraggio  da  nazioni  che  hanno  idee, tradizioni, culture  diverse  e  spesso  configgenti. Una  diversità  che  è  la  forza  dell’Europa, la  chiave  del  suo  fascino  e  del  suo  estro. Una  diversità  ancor  più  evidenziata  oggi, dove  l’allargamento  ad  est  dell’Unione  pone  grandi  problemi  in  materia  di  diritti  umani  e  civili, e  dove  la  recente  crisi  internazionale  ha  fatto  emergere  le  grandi  diversità  di  vedute  che  percorrono  e  tormentano  da  sempre  questo  continente, pur  arricchendolo.

Pur  nelle  sue  eterne  diversità, il  continente  europeo  ha  però  sempre  avuto  il  suo  minimo  comune  denominatore, un  punto  d’incontro  che  ha  permesso  nei  secoli  la  relazione  continua  e  fitta  tra  le  nostre  diverse  identità: questo  è  stato  ed  è  il  mar  Mediterraneo.

E  allora, ecco  che  possiamo  capire  che  cosa  ci  lega  a  doppio  filo  all’Africa, perché  il  Mediterraneo  non  è  stato  soltanto  veicolo  di  scambi  intraeuropei, ma  anche  e  soprattutto  “ponte”  naturale  su  questo  secondo, grande  continente  che  condivide  con  noi  le  sue  coste, e  che  si  è  sempre  incontrato  e  scontrato  con  un’Europa  che  non  poteva  farne  a  meno.

Da  una  parte  dunque  l’Europa, centro  di  una  cultura  che  è  prepotentemente  esplosa  rendendo  la  regione  la  “Patria  comune”  delle  più  importanti  potenze  del  mondo  (supremazia  offuscata  solo  nell’ultimo  secolo  dall’ascesa  degli  Stati  Uniti). Dall’altra  la  regione  del  Maghreb, la  cui  storia  è  persino  più  antica  di  quella  europea  ed  è  coincisa  per  secoli  con  quella  dell’intero  continente, ma  che  ha  visto  la  sua  millenaria  cultura  schiacciata  da  una  situazione  economica  e  sociale  sempre  più  insostenibile, soprattutto  a  causa  dello  scempio  della  colonizzazione  europea.

Un  rapporto  difficile  e  complesso  quello  tra  Europa  e  Maghreb, segnato  più  dallo  scontro  che  da  reciproca  comprensione, ma  comunque  profondo, secolare, frutto  di  una  vicinanza  geografica  che  ha  portato  le  nostre, pur  diversissime, culture  ad  incontrarsi  in  un  lungo, travagliato  processo  storico  di  comprensione  reciproca.

Un  incontro  iniziato  nell’epoca  dell’Impero  Romano, quando  i  Romani  costituirono  nel  territorio  Maghrebino  la  provincia  dell’Africa  proconsularis, quando  un’Africa  ancora  ricchissima  diede  a  Roma  letterati, giuristi, magistrati, imperatori.

Anche  successivamente, l’Africa  resta  centrale  nel  Mediterraneo: la  storia  del  cristianesimo  antico  è  anche  storia  africana: questo  continente  produsse  martiri  e  teologi, ed  i  cristiani  d’Africa  parlavano  latino  quando  a  Roma  la  Chiesa  era  ancora  di  lingua  greca.

La  conquista  territoriale  e  religiosa  dell’Islam  non  interromperà  il  legame  tra  i  popoli  mediterranei: gli  stati  italiani  hanno  continuato  a  commerciare  e  stringere  accordi  con  i  potenti  Stati  berbero-arabi.

Nel  XVI  secolo, la  natura  dei  rapporti  cambiò: non  più  semplici  contatti, ma  diretta  interferenza  europea  nel  continente  africano: inizia  l’era  delle  grandi  esplorazioni, prima  scientifiche, poi  di  conquista. E  la  forza, la  cultura, l’importanza  dell’Africa  cominciano  a  sgretolarsi, schiacciate  dalla  vera  e  propria  conquista  europea, che  considerò  il  continente  terra  di  razzia  per  rifornire  di  schiavi  il  nuovo  mondo. I  secoli  successivi  segnano  un  peggioramento  della  situazione: nel  XVIII  secolo  si  ha  il  primo  intervento  attivo  dell’Europa  in  Africa  settentrionale; nel  secolo  successivo  l’interessamento  aumenta, spostandosi  anche  sempre  più  all’interno.

Il  XX  secolo  nasce  segnato  dalla  spartizione  dell’Africa  tra  le  potenze  europee: un’Africa  non  più  interlocutrice  dell’Europa  sul  mar  Mediterraneo, bensì  oggetto  da  sfruttare  fino  all’esaurimento.

La speranza rinasce dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con la decolonizzazione che porta alla progressiva indipendenza degli Stati africani, frutto del fiorire anche in questo continente delle idee liberali europee.

L’Africa  di  oggi  è  il  frutto  di  tutto  questo, e  la  sua  disastrosa  situazione  economica, politica  e  sociale  è  figlia anche dell’Europa.

“Seguendo le tracce di fratel CHARLES DE FOUCAULD bisogna cogliere la nuova frontiera di un possibile, sorprendente rapporto tra Nord Africa ed Europa, tra cultura di radici cristiane e civiltà musulmana, fra un Vangelo considerato con rinnovata attenzione grazie a una Chiesa sempre più internazionalizzata nelle strutture e post-coloniale nei messaggi del Papa, e lo spirito di indipendenza dei Paesi che aspirano all’autonomia politica, economica, culturale.” (CORSERA 21/05/03).

Dunque siamo al punto che ieri è ancora oggi ma non è ancora un domani definito.

Analisi ultima

Il progetto di partenariato di Barcellona di cui abbiamo sopra citato, ha aperto una pagina nuova nei rapporti tra Unione Europea e i paesi della riva sud del Mediterraneo: per la prima volta si è parlato di co-sviluppo, e non più di aiuto allo sviluppo.

Ma l'entusiasmo iniziale, purtroppo, è andato via via scemando anche perché il Mediterraneo ha avuto sempre maggiori difficoltà a mantenere il posto d'onore nell'agenda dell'U.E. conquistato con la Conferenza di Barcellona, pure a causa degli eventi terribili e drammatici causati dall'implosione della Jugoslavia e dalle conseguenti guerre civili.

Il calo di interesse si è ben evidenziato nella seconda conferenza euromediterranea, tenutasi a Malta nell'aprile del 1997, dalla scarsità di risultati conseguiti.

Una concreta azione, che fa seguito alle intenzioni politiche iniziali, si è avuta con l'attuazione del programma MEDA 95-99.

L'Europa ha investito 9.000 miliardi ai quali se ne sono aggiunti altrettanti dalla Banca Europea per gli Investimenti.

Ma se confrontiamo questi valori con quelli che l'U.E. ha messo in campo per sostenere la politica di maggiore integrazione con i Paesi dell'Est europeo, si nota immediatamente il diverso peso, la diversa valenza strategica che l'U.E. attribuisce ai due processi politici.

In termini di sostegno finanziario, le due politiche comunitarie hanno impegnato poco più di 4.500 milioni di Ecu per quella mediterranea ed oltre 11.000 milioni di Ecu per l'avvicinamento dei Paesi dell'Est.

Ben si comprende allora Gianni De Michelis che, dalle colonne  di Area, lamenta il pericolo che il Mediterraneo diventi una nuova cortina di ferro tra Occidente e Islam, con un’Europa sempre più proiettata verso Est lungo la tradizionale via di espansione dei popoli germanici. Con forza aggiunge: «Noi dobbiamo pretendere una dimensione Mediterranea dell'Europa: se si devono investire risorse per la coesione interna verso Est, lo stesso deve accadere per la coesione esterna verso Sud».

Il rischio da evitare è quello che all'allargamento ad Est dell'Unione Europea faccia riscontro una attenuazione dell'impegno ed una riduzione delle risorse disponibili per l'area mediterranea.

L'Europa si trova ora ad un bivio: riprendere con slancio rinnovato l'iniziativa per la stabilità dell'area del mediterraneo o rassegnarsi a subire le conseguenze di fattori destabilizzanti sempre più forti.

Il futuro del partenariato, infatti, non è una questione settoriale e secondaria, ma sempre piùcoincide con il futuro della stessa Europa.

Per cambiare lo scenario economico politico dell'area mediterranea occorrono interventi urgenti di politica economica molto più incisivi, che valorizzino il ruolo e la centralità delle piccole e medie imprese, principale volano per creare sviluppo e arginare i processi migratori che se continuano con i ritmi di questi ultimi anni potrebbero mettere in crisi gli stessi paesi europei più avanzati.

Ma lo strano fenomeno in fatto di commercio nel Sud Est del Mediterraneo è il basso livello degli scambi commerciali.

Bisogna lavorare per elevare tale livello.

C'è un urgente bisogno di cambiare strada per creare l'area di libero scambio con i Paesi del Mediterraneo e l'Unione Europea su livelli globali.

Per raggiungere questa meta c'è bisogno di cooperazione e di impegno politico su scala totale europea e forti spinte da tutte le forze del mondo industriale e commerciale.

La  domanda  ora  è: l’Ue  avrà  davvero  la  forza  di  caricarsi  di  questo  fardello  che  le  spetta, oppure  la  debolezza  e  l’ipocrisia  avranno  la  meglio  facendole  voltare  le  spalle?

E’  una  sfida  importante  per  un’Europa  che  si  rende  baluardo  di  una  grande  cultura  di  tolleranza, solidarietà  e  rispetto  dei  fondamentali  diritti  dell’uomo.

Allo  stesso  tempo, è  una  sfida  a  cui  l’Europa  deve  rispondere  in  tempi  brevi, altrimenti  non  vi  potrà  rispondere  più. Anche perché se allarghiamo la nostra visuale anche al continente subsahariano ci rendiamo conto della   situazione  disastrosa  dell’Africa: senza  un  intervento  serio  ed  efficace  in  tempi  brevissimi, l’Africa  morirà.

E  l’Europa, volente  o  nolente, sarà  ampiamente  responsabile  del  destino  dell’Africa. Qualunque  esso  sia.

L’Africa di oggi è un continente che presenta  gravissimi caratteri di sottosviluppo: basso è il reddito pro-capite e bassi i livelli di produttività agricola; la base industriale è ristretta, corrisponde soltanto al 2 per cento della produzione industriale mondiale. I livelli di scolarizzazione e il tasso di mortalità sono elevatissimi.

Come  se  non  bastasse, negli  ultimi  decenni  l’Africa  è  stata  flagellata  (e  continua  ad  esserlo)  da  malattie  endemiche  che  ne  stanno  seriamente  minando  il  futuro  e  le  possibilità  di  sviluppo. Decenni  di  guerre, carestie, fame, uso  di  armi  batteriologiche  e  povertà  hanno  portato  al  dilagare  di  malattie  mortali  e  davanti  a  cui  la  scienza  medica, almeno  allo  stato  attuale  delle  cose, è  impotente. E’  in  questo  continente  già  tormentato  che  è  nato  il  flagello  del  virus  Ebola. E  sempre  qui  si  trova  la  stragrande  maggioranza  dei  malati  di  AIDS  (si  calcola  che  il  98%  delle  persone  colpite  da  questa  malattia  mortale  vivono  in  Africa).

Il continente africano fornisce circa il 30 per cento in valore della produzione mondiale di minerali e il 6 per cento di quella di petrolio grezzo: tali percentuali sono state in continua crescita negli ultimi vent’anni. Le risorse minerarie sono però distribuite in modo ineguale e ciò contribuisce a mantenere sensibili squilibri tra i vari Paesi del continente. La quota dei vari minerali nella composizione del prodotto lordo varia dall’1% del minerale di ferro in Algeria, al 62% del rame nello Zambia, al 52% del ferro in Mauritania, a quasi l’80% del petrolio in Libia.

Vi è quindi un’Africa ricca a fronte di una popolazione africana povera. L’Africa, in effetti, copre il 95% della produzione mondiale di diamanti; il 75% dell’oro, il 50% di cromo; il 67% di cobalto ecc. Le fonti di energia sono immense: 32% di tutto il potenziale idroelettrico mondiale; 5,5% della produzione di petrolio con incrementi annui dal 12 al 15%. Se si considera anche le colture introdotte (caffè, tè, tabacco) e le riserve immense di legname pregiato (ebano, palissandro ecc.) per costruzione e usi industriali, si nota come le ricchezze del continente siano rilevantissime, ma non abbiano di fatto costruito benessere (spesso, neppure condizioni di vita accettabili) per i cittadini dei Paesi africani. 

Il depredamento delle risorse da parte di molti dei Paesi ex-colonialisti e l’ingerenza tuttora operante (spesso in modo "mascherato" = neocolonialismo) di tali Paesi sui governi degli Stati africani che man mano hanno conquistato un'indipendenza formale, il tipo di investimenti effettuati e mai rispondenti a criteri di reale sviluppo dei Paesi africani (mancano infrastrutture elementari, in particolare strade, ferrovie, porti, scuole, ospedali), la fuga dei proventi economici verso l’estero, la limitazione calcolata dell’accrescimento di produzione, hanno fatto sì che di tutte le ricchezze del loro continente proprio le popolazioni africane non divenissero beneficiarie.

L’acqua, un  bene  che  nelle  nostre  ricche  società  è  forse  il  più  comune, rappresenta  una  delle  più  gravi  emergenze  del  continente  africano. La  mancanza  di  acqua  rappresenta  una  delle  principali  cause  di  mortalità  dell’Africa, e  provoca  alcune  delle  più  gravi  malattie  che  affliggono  la  regione.

Probabilmente, l’acqua  sarà  la  causa  dei  più  gravi  conflitti  del  terzo  millennio, avviandosi  a  diventare  il  bene  più  prezioso  per  questo  continente  agonizzante.

Storicamente, l’agricoltura  dovrebbe  essere  l’attività  principale  dell’Africa.

Migliaia  di  anni  fa, prima  della  desertificazione, il  territorio  del  Sahara  era  un’immensa  area  verde  in  cui  prosperava  l’attività  agricola  delle  popolazioni  locali, fonte  di  sostentamento  dell’intera  regione.

La  situazione  è  cambiata :  sia  per  cause  naturali  (l’avanzata  dei  deserti)  che  indotte  dall’uomo  (lo  scempio  della  colonizzazione), fino  ad  arrivare  all’Africa  di  oggi  che, pur  godendo  di  condizioni  climatiche  più  favorevoli  per  l’agricoltura  rispetto  a  quelle  europee  e  statunitensi, rappresenta  la  più  grande  sacca  di  povertà  e  di  fame  del  mondo, dove  ogni  giorno  migliaia  di  persone  muoiono  per  mancanza  di  cibo.

La formazione dei giovani nel settore agrario costituisce sicuramente l’investimento più appropriato nell’ottica dell’abbattimento della fame nel mondo. Ammirevole l’iniziativa intrapresa, ed esempio, da un Istituto Agrario di un piccolo Comune della provincia di Pescara, Cepagatti, dove sono attualmente ospitati per l’intero arco scolastico di 3-5 anni quasi 100 ragazzi provenienti da Paesi in via di sviluppo del continente africano; il progetto prevede il trasferimento di tutte quelle competenze indispensabili per lo sviluppo rurale. Soltanto mettendo le popolazioni di queste aree ora “depresse” nelle condizioni di provvedere alla loro sussistenza potremmo sperare in un miglioramento delle loro condizioni di vita.

Un ruolo importante nel tentativo di strappare il maggior numero di persone dalla morsa della povertà viene giocato anche dai soggetti non istituzionali; non mi riferisco soltanto alle encomiabili ONG, ma anche alle miriadi di associazioni che, grazie alla solidarietà e all’impegno dei propri membri, riescono a regalare ogni giorno la speranza di vita a persone del Terzo mondo. È questo il caso dei “Rotary Club” di Algeri, con la sostanziale collaborazione di rotariani italiani, che, nell’ottica di contribuire a bloccare il fenomeno della desertificazione e di favorire lo sviluppo rurale, limitando così la fuga delle popolazioni, ha elaborato un progetto per la creazione di aree irrigue in una zona del Sahara algerino. Tale progetto permetterà agli abitanti dei villaggi interessati di coltivare i terreni e di assicurarsi così l’autosufficienza alimentare.

Un primo bacino irriguo è stato completato e verrà inaugurato in forma solenne il prossimo 15 Giugno.

Le grandi potenze promuoveranno una politica intelligente soltanto laddove interverranno per incentivare l’autosufficienza e l’indipendenza reale di questi Paesi, fornendo loro il know how e gli strumenti necessari per il compimento del primo passo indispensabile per sradicare la povertà nel mondo: l’autosufficienza.

L’ultimo obiettivo espressamente citato dalla Commissione è il rafforzamento delle capacità istituzionali dei PVS; l’erogazione dei fondi e l’implementazione di piani di sviluppo presuppone l’esistenza di istituzioni solide ed affidabili con cui poter cooperare per la gestione dei progetti. La “good governance”, che include la gestione efficiente dei conti dello Stato, la lotta alla corruzione e il rispetto dei principi democratici, è un elemento che riveste un’importanza cruciale all’interno delle strategie di riduzione della povertà.

Tutto  questo  come  è  potuto  succedere ?  La  povertà  e  il  sottosviluppo, eredità  lasciate  dalla  colonizzazione, hanno  portato  gli  Stati  africani  ad  una  situazione  attuale  di  assoluta  mancanza  di  infrastrutture, tecnologie, e  conoscenze  tecniche  necessarie  allo  sfruttamento  efficiente  delle  immense  risorse  agricole  che  il  loro  territorio  possiede  in  potenza. L’Africa  ha  le  risorse  per  fronteggiare  il  problema  della  fame, ma  non  ha  le  strutture  e  le  conoscenze  necessarie  per  farne  uso.

Negli  ultimi  anni, la  situazione  catastrofica  in  cui  versa  l’Africa  ha  portato  allo  sviluppo  di  mastodontici  programmi  di  cooperazione  allo  sviluppo, gestiti  in  modo  particolare  dalle  Organizzazioni  Internazionali, ma  in  cui  anche  Europa  ed  Italia  hanno  trovato  un  loro  ruolo.

Purtroppo, per  molto  tempo  questi  interventi  sono  stati  mal  coordinati  e  ben  poco  efficaci, come  dimostra  il  continuo, inarrestabile  peggioramento  della  situazione  africana.

Urge  un  deciso  cambiamento  di  rotta, urge, per quanto attiene l’Italia, il  varo  della  troppe  volte  annunciata  e  mai  realizzata  nuova  legge  sulla  cooperazione  allo  sviluppo, per  cambiare  l’approccio  a  questo  problema  che, come  si  è  detto, si  è  finora  rivelato  ben  poco  risolutivo  se  non  fallimentare.

Bisogna  aprire  nuovi  fronti  di  intervento, abbandonare  una  cooperazione  ancora  eccessivamente  “multilaterale”, lasciata  ad  Organizzazioni  Internazionali  che  spesso  si  rivelano  enormi  ed  impotenti  baracconi  burocratici, per  concentrarsi  sulle  nuove  forme  di  cooperazione  decentrata  e  di  partenariato, fondamentali  se  si  vogliono  ottenere  risultati  efficaci. Bisogna  coinvolgere  direttamente  gli  italiani  che  lavorano  e  risiedono  in  quei  Paesi, spesso  lasciati  a  se  stessi  nell’affrontare  i  mille  problemi  che  uno  straniero  trova  ogni  giorno  nel  vivere  e  lavorare  in  Paesi  difficili, a  rischio, con  una  mentalità  molto diversa dalla  nostra  e  spesso  poco  tolleranti  verso  ciò  che  è  “diverso”.

Proprio  questa  situazione  di  svantaggio  iniziale, rende  ancora  più  importante  e  degna  di  merito  l’azione  che  gli  italiani  hanno  portato e portano avanti  in  questi  Paesi  con  serietà, costanza, impegno  e  sacrificio. Un’azione  grazie  alla  quale  gli  italiani  sono  ormai  da  anni  presenti  come  comprimari  in  Algeria  e  Tunisia, ex  colonie  francesi, e  praticamente  unici  protagonisti  in  Libia, ma anche in Egitto, Marocco.

Grazie  alla  serietà  di  questi  italiani  che  sono  riusciti  ad  essere  allo  stesso  tempo  internazionali  (“l’altra  Italia”, per  usare  la  terminologia  del  Ministro  per  gli  Italiani  all’Estero, On. Tremaglia), la  supremazia  della  Francia  è  stata  affiancata  e  poi  sostituita  già  negli  anni  ’70.

Questo  risultato  è  stato  primariamente  una  conquista  proprio  degli  italiani  in  Maghreb: una  “nuova  emigrazione”  composta  da  ingegneri, architetti, tecnici,  operai altamente specializzati  impegnati  a  realizzare  progetti  di  grande  rilevanza, con  cui  contribuiscono  allo  sviluppo  dei  Paesi  in  cui  operano  e  si  guadagnano  stima  e  rispetto.  Quale  risultato  può  essere  più  importante  in  un’epoca  di  tensioni  e  conflitti  tra  civiltà ?

Ormai, bisogna  considerare  realtà  un’idea  fino  a  poco  tempo  fa  neanche  ipotizzabile, l’idea  di  una  “identità  mediterranea”, così  attuale  da  fare  affermare  ad  un  funzionario  algerino: “La  Méditerranée, c’est  Mare  Nostrum!”.

La  nuova  centralità  attribuita  al  Mediterraneo  dalla  politica  nazionale  ed  europea  impongono  all’Italia, in  maniera  sempre  più  urgente, di  prendere  esempio  dai  nostri  connazionali  d’oltremare, di  incentivarne  l’operato, di  tutelarli  in  maniera  efficace: in  una  parola, di  farli  sentire  davvero  italiani.

Il contributo italiano nella regione

Il continente africano ospita attualmente 130.000 nostri connazionali, distribuiti principalmente nell’area mediterranea e sudafricana. Il Mare Nostrum, culla della civiltà, è stato per anni il teatro nel quale i nostri antenati si sono incontrati per stringere relazioni di tipo politico e, soprattutto, commerciale.

Ripercorrendo gli eventi storici fino ad arrivare ai giorni nostri, registriamo nei tempi più recenti due distinti flussi migratori degli italiani verso il continente africano.

Gli emigrati italiani di prima generazione portavano con loro il sogno di conquistare nuovi possedimenti nonché la voglia di esportare la nostra cultura, le nostre tradizioni ed il nostro stile di vita. Questo sogno venne però polverizzato dalla seconda guerra mondiale, che relegò l’Italia ad un ruolo di secondo piano sulla scena politica internazionale.

Tali eventi non sono stati sufficienti, però, ad impedire all’Italia di riprendere a stringere relazioni politiche, economiche e sociali con i Paesi di quel grande continente verso il quale la nostra penisola sembra essere geograficamente proiettata. Questo è, appunto, il quadro nel quale si è andato ad inserire il secondo flusso migratorio Nord-Sud.

Questa “nuova emigrazione”, come già detto, è rappresentata prevalentemente dalla moltitudine di imprenditori e professionisti chiamati a curare l’attività sviluppata dalle numerose imprese italiane che operano con crescente successo nel campo dell’energia, della meccanica, della cantieristica o dell’idraulica. Si tratta, quindi, di un’emigrazione per lo più intellettuale e di alta professionalità, fatta di managers, tecnici specializzati, funzionari d’impresa i quali hanno dimostrato grande capacità di adattamento, facilitato forse dall’inevitabile “mal d’Africa”, e, soprattutto, una spiccata sensibilità verso la cultura dei paesi d’accoglienza. Proprio questa particolare capacità di relazionarsi con le popolazioni locali, basata sul rispetto e sulla parità, ha fatto degli italiani un interlocutore privilegiato rispetto ai discendenti delle vecchie potenze colonizzatrici europee.

Innegabili sono, dunque, gli effetti positivi prodotti dai nostri connazionali a favore della loro Terra natia, non soltanto in termini economici, ma altresì d’immagine, tant’è che nel continente africano la nostra immagine viene associata agli ospedali, costruiti e gestiti con encomiabile dedizione e altruismo da missionari, medici, infermieri e volontari, alle scuole, (impiantate da Istituzioni religiose, quali gli Orionini, i Gesuiti, i Salesiani o sostenute dal “Comitato dei genitori”) e alle infrastrutture, quali il gasdotto che dall’Algeria porta energia in Italia o il tunnel ferroviario di El Achir, sempre nella regione algerina.

A onor del vero, il rinomato spirito di adattamento degli italiani e la loro grande capacità di relazionarsi con gli stranieri non hanno sempre garantito una perfetta integrazione nei Paesi ospitanti, anche se questo è un problema che, incredibilmente, i nostri connazionali hanno sofferto e tuttora soffrono pure in un suolo “amico”, quale può essere quello di un partner europeo. Ancora oggi, infatti, assistiamo a degli episodi di discriminazione nei confronti degli emigrati italiani perpetrati da Stati “civili” ed altresì alleati: la questione delle espulsioni facili e dei soggiorni negati dalle autorità tedesche, oltre a preoccupare gli italiani in Germania dovrebbe far risvegliare dalle loro tombe i Padri fondatori della Comunità Europea.

Con immenso piacere, misto ad indignazione, registriamo finalmente qualche passo in avanti in un ambito scottante quale quello della giustizia, o meglio, …della mala giustizia di alcuni Paesi extra-comunitari, nelle cui maglie, purtroppo, sono spesso rimasti imbrigliati dei nostri connazionali, ultimo, a ns. conoscenza, in Guinea nel giugno 2002 : per il ns. connazionale il rientro in Italia è stato possibile solo il 7 gennaio di quest’anno. Lo Stato Italiano dovrebbe assumersi un impegno concreto a garantire, in maniera effettiva, il rispetto dei diritti fondamentali a tutti i suoi cittadini che operano all’estero, a beneficio della stessa Patria. In questa direzione va richiamato l’impegno del Ministero per gli Italiani nel Mondo che, tramite l’UGL, ha potuto ricondurre al giusto atto di profonda e dovuta giustizia nei confronti di un dipendente della filiale di New York di una banca italiana licenziato senza giusta causa. Sarebbe bene che l’Italia promuovesse, concordasse e pervenisse in tempi brevi alla stipulazione di Accordi di cooperazione giudiziaria, come del resto auspicato dallo stesso Ministero della Guinea in occasione dell’episodio surriportato. Questo dovrebbe essere un imperativo con tutti quei paesi nei quali è presente la “nuova emigrazione” e che ricevono consistenti aiuti da parte italiana, anche con iniziative di Cooperazione.

Bene del resto l’attività di questi mesi del Governo in termini di ratifiche ed esecuzione di convenzioni inerenti le doppie imposizioni (Uganda-Etiopia) o memorandum d’intesa (Trattato di estradizione, Sri Lanka) o ancora relativa ai trasporti internazionali di viaggiatori e merci in transito (Algeria).

E che ne è della costituzione di un “Fondo di solidarietà”, attivabile in tempo reale in caso di eventi eccezionali, a favore anche di quei “tecnici a seguito d’impresa” ? Eppure non pochi ordini del giorno sono stati approvati dalle AP del CGIE succedutesi negli anni.

E che ne è, ancora, della “coerente attenzione” per quelle eccezionali Scuole Italiane locali, tenute in piedi da “Comitati dei genitori” che da decenni, attraverso salatissime rette, assicurano ai figli quel diritto allo studio sancito solennemente dalla Costituzione Italiana? Eppure quelle Scuole (Marocco, Etiopia, Egitto, Eritrea, Algeria, Libia etc.) hanno garantito la realizzazione dell’intero ciclo formativo, dalle Elementari alle Medie Superiori, a molti giovani che, dopo gli studi universitari, compiuti magari in Italia, hanno conquistato posizioni professionali e sociali di primissimo piano; la riformanda legge 153/71 dovrebbe ritrovare nel nuovo articolato, di cui pure si sta occupando il CGIE, grande attenzione anche per queste realtà scolastiche.

E poi ancora, che ne è di quel diritto all’assistenza sanitaria che penalizza gli italiani residenti nei Paesi extracomunitari che, rientrando temporaneamente in Italia, hanno diritto all’assistenza limitatamente ai primi 3 mesi? : molte ASL ignorano perfino tale limitata possibilità e le relative procedure per poterne beneficiare ! Eppure, i datori di lavoro delle migliaia di “tecnici a seguito d’impresa” versano regolarmente i contributi dovuti per tali prestazioni. Del resto, anche da un punto di vista previdenziale, sono loro largamente misconosciuti i diritti che dovrebbero maturare in quegli anni impegnati direttamente all’estero!

Non si può, quindi, nascondere l’attuale vulnerabilità di queste comunità italiane all’estero, favorita da uno scarso sostegno e attenzione da parte delle Istituzioni nazionali. Tale lacuna è tanto più grave quando si verifica in un settore, quale quello commerciale, che maggiormente dovrebbe stare a cuore alle casse dello Stato. A fronte delle eccezionali opere di ingegneria civile, industriale, manifatturiere ed altre, cosa fa lo Stato italiano per sostenere la competizione finanziaria con i grandi gruppi di altri Paesi? Perfino la Spagna ed il Portogallo, in questo, ci hanno superato! Parliamo della rivitalizzazione di vecchi strumenti, quali la “Legge Ossola”, Mediocredito, Linee di Credito ed altri, di cui pure si è tanto parlato nell’ambito della Commissione Tematica del CGIE. Abbiamo la percezione, fin qui, che la sola SIMEST, o meglio, la nuova SIMEST ha cambiato pelle e dà segni di grande vitalità, dichiarandosi disponibile a raccordarsi con gli Organismi rappresentativi delle Comunità Italiane all’estero. A tal proposito, è bene sottolineare che le stesse Camere di Commercio Italiane all’Estero, nonché l’ICE, andrebbero concretamente ripensati.

Anche la Formazione Professionale del Ministero del Lavoro pare stia concretamente riflettendo e perfezionando strumenti innovativi per la qualificazione e la riqualificazione delle nostre realtà in Paesi extracomunitari : in Etiopia (2001/2002) è stato reso accessibile e possibile alla Comunità Imprenditoriale italiana un programma d’informazione, di formazione e di assistenza tecnica per accrescere il livello di efficienza gestionale.

La mancanza di investimenti a livello finanziario, culturale e assistenziale hanno provocato una sorta di strappo che oggi, finalmente, si sta cercando di ricucire: in questa direzione, infatti, sembra andare il progetto di riforma del Ministero degli Esteri, fondato sulla consapevolezza dell’importanza strategica che la diffusione della lingua, della cultura e delle tradizioni nazionali, il supporto alle esportazioni e all’internazionalizzazione delle imprese, ed infine la maggiore considerazione e valorizzazione degli italiani all’estero, che è stata avviata con il riconoscimento del diritto di voto, possono avere per una Nazione che intende estendere i propri “confini” al di là del mare.

Per  concludere, si  può  dire  che  abbiamo  analizzato, in  questo  discorso, diverse  tematiche  connesse  al  problema  della  cooperazione  allo  sviluppo. Sarebbe  bello, adesso, poter  concludere  dicendo  che  da  quanto  visto  la  situazione  è  confortante  e  fa  sperare  in  una  rapida  soluzione  dei  problemi  che  affliggono  l’Africa.

Purtroppo, non  è  così. Quanto  abbiamo  visto  ci  mostra  soltanto  una  realtà  catastrofica, di  sofferenza  immensa  che  noi, Occidentali  e  abituati  alle  comodità  offerte  dal  terzo  millennio, facciamo  perfino  fatica  ad  immaginare.

Come  è  possibile  che  mentre  noi  decidiamo  in  quale  ristorante  andare  a  cena, ci  sia  qualcuno  nel  mondo  che  nello  stesso  momento  muore  di  fame ?  Come  è  possibile  morire  di  fame  e  di  sete  nel  2003 ?

Eppure  succede  ogni  giorno, anzi  ogni  ora.

La  ricchezza  della  nostra  società  ci  mette  a  disposizione  mezzi  di  comunicazione  inimmaginabili  fino  a  pochi  anni  fa. La  tecnologia  ci  da  possibilità  di  intervento  senza  limiti, in  qualunque  campo. La  globalizzazione, che  è  prima  di  tutto  comunicazione  globale, ci  ha  resi  sensibili  conoscitori  di  ogni  realtà  con  tutte  le  sue  possibili  sfaccettature.

Nonostante  questo, l’Africa  continua  a  morire, lentamente, inesorabilmente, schiacciata  da  una  situazione  che  diventa  sempre  più  insostenibile. Nell’era  dell’innovazione  e  dello  sviluppo  continuo  e  sfrenato, l’Africa  regredisce, peggiorando  di  giorno  in  giorno.

Non  basta: l’aspetto  peggiore  è  che  l’Africa  sta  morendo  nell’indifferenza  del  resto  del  mondo. Siamo  troppo  impegnati  per  interessarci  dell’Africa: c’è  sempre  qualche  priorità  che  ci  costringe  a  distogliere  lo  sguardo  dalla  sua  situazione. In  un  mondo  che  corre, l’Africa  è  stata  lasciata  indietro, e  nessuno  ha  intenzione  di  voltarsi  a  guardarla, meno  che  mai  di  fermarsi  ad  aspettarla.

Abbiamo  la  comunicazione  globale, ma  abbiamo  perso  la  capacità  di  ascoltare, e  non  sentiamo  il  grido  di  un  continente  che  è  in  agonia.

Ci  mettiamo  l’anima  in  pace  versando  contributi  ad  Organismi  Internazionali  cui  è  stato  affidato  l’altissimo  compito  di  salvare  l’Africa  e  che  dopo  Assemblee  oceaniche, presentazione  di  documenti  interminabili  e  animate discussioni  politiche  ed  ideologiche, puntualmente  arrivano  alla  conclusione  che  la  situazione  sta  peggiorando  e  che  bisogna  fare  qualcosa.

Davanti  all’impotenza  dell’ONU, che  cosa  si  può  fare ?

De-tax, Piano Marshall – Energy tax

Grande reticenza da parte dei potenti della Terra si riscontra allorquando si leva da più parti la richiesta della cancellazione del debito. In realtà, in molti casi, si tratta soltanto di tenere fede a degli impegni di cancellazione già in precedenza sottoscritti. Per quanto riguarda l’Italia, l’attuale Governo ha presentato una proposta molto più significativa della semplice cancellazione del debito: essa intende, infatti, favorire il processo di sviluppo sostenibile attraverso la riconversione del debito in programmi a valenza sociale ed ambientale. Alcuni PVS, come ad esempio l’Algeria, beneficiano già attualmente di tale strategia per lo sviluppo : un’Algeria duramente colpita dal terribile terremoto del 21 Maggio, con migliaia di morti.

Non si può dimenticare l’idea lanciata in occasione del G8 di Genova dal Premier inglese Tony Blair di un “Piano d’azione pro Africa”, finalizzato a strappare dalla povertà il continente più gravemente malato, piagato dalla fame, dalle guerre, dalle malattie e dalla miseria. Tale “Piano Marshall per l’Africa”, la cui paternità è da attribuire all’allora onorevole, oggi Ministro Tremaglia, non ha trovato però spazio nel documento conclusivo del Vertice; per questa ragione, nonostante l’assunzione di responsabilità da parte dei potenti ed la maggiore sensibilità manifestata, almeno nei discorsi ufficiali, dai depositari delle sorti del mondo, l’idea di un impegno dei Grandi del pianeta a favore dell’Africa è rimasta lettera morta.

Un’altra innovativa proposta avanzata dal Ministro dell’Economia Tremonti riguarda l’introduzione del cosiddetto meccanismo “de-tax”, che comporta l’esenzione dalle imposte dirette ed indirette per quelle donazioni effettuate dai consumatori  destinando, su base volontaria, l’1% del valore degli acquisti a progetti di sviluppo. A differenza di altre forme di tassazione internazionale ipotizzate, tale sistema ha il vantaggio di non richiedere un approccio multilaterale, potendo infatti essere adottato  unilateralmente da parte di ciascun Paese interessato.

Sebbene questo tipo di approccio solidaristico risulta essere particolarmente interessante per il fatto che consente un coinvolgimento diretto dei singoli nel cammino verso una più equa distribuzione delle risorse, è tuttavia chiaro che ogni impegno assunto su base volontaria, anche nel caso in cui si tratti di promesse da parte dei Governi Nazionali, rischia di essere disatteso, condannando, di fatto, quelle popolazioni la cui vita è spesso appesa ad un sottilissimo filo di speranza.

Appannandosi il mito dell’intervento pubblico e collocate in un lontano futuro le speranze di assistere ad uno sviluppo capitalistico autoctono, i Paesi industrializzati dovrebbero adoperarsi per trovare una via alternativa nel rapportarsi al problema del sottosviluppo.

Nessuno può negare che in gran parte dei PVS e Paesi del Quarto Mondo vi siano risorse sufficienti non solo a sfamare le popolazioni locali, ma altresì a garantire loro una posizione di tutto rispetto nel mercato globale. Purtroppo, però, i frutti degli alberi autoctoni finiscono per cadere in una zona di “extraterritorialità”, lasciando così le popolazioni indigene a mani vuote.

Essendo, questi Paesi sottosviluppati, ricchi di quelle materie prime di cui i Paesi industrializzati necessitano per alimentare il motore delle proprie economie, si potrebbe ipotizzare la realizzazione di un sistema che permetta di reperire quelle risorse finanziarie necessarie allo sviluppo degli “Stati fornitori”.

Data la dipendenza reciproca tra il Nord ed il Sud del Mondo, motivata dalla necessità da una parte di risorse energetiche e dall’altra di cibo ed acqua, sarebbe auspicabile l’introduzione di un meccanismo che permetta ad entrambi, ma in particolar modo ai Paesi in via di sviluppo, di beneficiare di tale rapporto.

L’idea è quella di far gravare su tutte le transazioni aventi ad oggetto risorse energetiche un’imposta di entità molto limitata cui potremmo dare il nome di “Energy tax”. Tale tassa andrebbe poi a costituire un fondo per lo sviluppo equo e solidale, una sorta di Banca morale, cui i Paesi sottosviluppati potranno attingere per l’implementazione di piani di sviluppo e crescita. Le risorse finanziarie reperite attraverso questa tassazione delle transazioni energetiche verrebbe, quindi, destinata all’attuazione di programmi di lotta alla povertà, di salvaguardia dell’ambiente, di tutela dei diritti umani, di sviluppo sociale e sostenibile, nonché di prevenzione dei conflitti.

Soltanto colpendo i “beni necessari” per l’Occidente possiamo sperare di regalare la speranza in un futuro più dignitoso per queste popolazioni sottosviluppate e per l’Umanità tutta.

Bisogna  sollecitare  l’azione  non  soltanto  dei  Governi, ma  un’azione  che  impegni  tutta  la  società  civile. L’azione  unitaria  e  decisa  non  di  pochi  burocrati  che  non  possono  far  altro  che  stanziare  fondi  per  quel  capitolo  di  bilancio  titolato  “Cooperazione  allo  sviluppo”, ma  dell’intera  società, che  deve  alzarsi  ed  andare  in  aiuto  non  di  uno  straniero, visto  come  qualcuno  distante  da  noi, ma  di  un  fratello, a  cui  siamo  legati  da  una  storia  millenaria  attraverso  quell’enorme  lago  che  è  il  mar  Mediterraneo.

Non  c’è  altro  modo. Tutti  dobbiamo  prendere  coscienza  di  questo  ed  agire  in  prima  persona, ciascuno  a  suo  modo, rendendoci  conto  che  la  creazione  di  un’Unione  Europea  non  deve, non  può  voler  dire  dimenticare  un  continente  così  strettamente  legato  al  nostro  e  che  non  chiede  aiuto: chiede  di  sopravvivere.

Il  “continente  solidale”  è  proprio  questo: acquistare  coscienza  che  Europa  ed  Africa  dovrebbero  essere  un’unica, grande  realtà  unita  dal  “lago”  Mediterraneo, ed  agire  di  conseguenza. Solo  così  un’Africa  agonizzante  potrà  avere  una  possibilità  di  sopravvivenza, solo  così  un’Europa  vecchia  e  stanca  potrà  trovare  nuovo  slancio: salvare  l’Africa  significa  anche  salvare  noi  stessi.

In  quest’ottica, l’Italia  deve  prendere coscienza del suo ruolo chiave: ponte  sul  Mediterraneo, vero  punto  d’unione, il  nostro Paese deve capire che la sopravvivenza  dell’Africa  passa  anche  e  soprattutto  attraverso  un  suo  impegno in  prima  linea.

E’  questo  l’unico  modo  per  realizzare  un  sogno: il sogno di  riportare l’Africa alla sua  antica  ricchezza, per  farle  riscoprire  le  sue  tradizioni, la  sua cultura, la  sua  grandezza  che  tanto  hanno  affascinato  quei  primi  europei  che  l’hanno  esplorata. Diversamente, questa  terra  misteriosa  e  bellissima, carica  di  passato  e  assetata  di  futuro, sarà  perduta  per  sempre.

Franco Santellocco

AIE