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Relazione di Franco Santellocco I rapporti tra l’Unione Europea ed il Maghreb: ipotesi di sviluppo Contributo della presenza italiana nella Regione RELAZIONE FINALE “IL CONFRONTO EURO-MEDITERRANEO E LA COOPERAZIONE” (AIE) Premessa Secondo il pensiero di molti autori, che scrutano la superficie del Mediterraneo come nell’antichità gli aruspici interpretavano il volo degli uccelli per trarre presagi buoni o funesti, assisteremo presto ad una deflagrazione tempestosa dalle conseguenze imprevedibili, spesso descritte come apocalittiche. Il Mediterraneo appare come una minaccia, un "mare instabile", un"mare di guai", in breve un "Mediterraneo amaro". E questi autori enumerano tutti i fattori di deflagrazione: l’esplosione demografica, l’integralismo musulmano, il terrorismo, l’immigrazione, il conflitto arabo-israeliano e la trentina di altri conflitti aperti o latenti, il sottosviluppo, l’esaurimento delle risorse idriche, l’erosione del suolo e le tensioni economiche. Francois Puaux afferma, senza giri di parole, che "il vecchio mare latino, culla della nostra civiltà, è in realtà un luogo di contraddizioni religiose, sociali e territoriali, il ridotto di conflitti multipli per lungo tempo insoluti". In effetti il Mediterraneo unisce alle sue caratteristiche marine generali (spazio, mobilità, flessibilità d’impiego) la peculiarità di occupare una posizione unica come punto d’intersezione di tre continenti (Asia, Africa, Europa), all’incrocio di due assi (est-ovest e nord-sud) e come tratto di unione fra due Oceani (Atlantico e Indiano) e culla di tre religioni monoteiste. Attraverso il Mediterraneo si svolge 1/6 del traffico marittimo mondiale e 1/3 del traffico petrolifero mondiale. Ma questo mare semichiuso non è un mare come altri. Per dirla con Fernand Braudel é un "complesso di mari: di mari ingombri d’isole, intersecati da penisole, circondati da coste frastagliate. La sua vita è intimamente legata a quella della terra, la sua storia non può essere dissociata dal mondo terrestre che lo circonda". E la storia ci rammenta che chi ha detenuto il controllo del Mediterraneo ha avuto il controllo del commercio e quindi della stessa sopravvivenza di tutti i popoli rivieraschi. Fu il dominio del Mediterraneo che fece grande Roma per un millennio. E così fu per l’impero Ottomano, che conobbe il “principio della fine” in una battaglia tutta giocata sul mare: Lepanto. Questi brevi cenni storici ci sono serviti per introdurre una domanda di non poco conto: esiste un futuro comune per i paesi del Mediterraneo? Risponderemo a questa domanda. Ma non lo faremo ricorrendo alla pratica seguita dai tanti “esegeti”, o aruspici di cui sopra, che prevedono catastrofi da uno scontro ineludibile fra il mondo cristiano ed il mondo musulmano tacciato, per altro, di essere profondamente fondamentalista, o integralista che dir si voglia. «La conoscenza, unica via contro l'odio» … e contro le guerre, aggiungo io, estendendo un concetto di Franco Cardini che afferma in un suo scritto: "Filoislamismo e antislamismo sono infami e funesti come filoamericanismo e antiamericanismo, filosemitismo e antisemitismo", e termina con parole lapidarie e conclusive: «l'odio è una funzione dell'ignoranza, punto e basta». Verità ancora più conclamata se stiamo alle parole di Gilles Kepel (Docente all'Istituto di studi politici di Parigi), il quale svolge un'interessante tesi dal titolo "Eutanasia per i fanatici" (v. Panorama n. 37/2002): «Dire che abbiano fallito (i terroristi, ndr) sembra assai contraddittorio quando la molta attenzione data a Osama bin Laden e seguaci ha garantito loro la visibilità che desideravano». E a supporto della tesi aggiunge: «… la maggior parte degli islamici ha seguito gli Imam che hanno rifiutato di appoggiarlo (Osama Bin Laden, ndr), visto che temevano di essere trascinati in un distruttivo confronto con l'Occidente». Dunque, contrariamente a quanto si sia indotti a credere, anche a causa di una “certa” informazione, l'Islam (che conta oltre un miliardo di fedeli) non sta marciando unito contro l'Occidente infedele, e non ha niente a che vedere con l'estremismo islamista che, a sua volta, non è una realtà compatta bensì frammentata in una miriade di divisioni ideologico-politiche in lotta fra loro. Anzi Magdi Allam nel suo libro Diario dall’Islam ci rammenta che le prime vittime del’integralismo islamico sono stati proprio i popoli musulmani che esprimono un Islam moderato. E allora, al di là degli scenari post bellici che si potranno delineare in Iraq, “resta il fatto incontrovertibile, scrive Raffaello Berry sul mensile Area, che la politica del muro contro muro tra Occidente e Islam non trova giustificazioni culturali, sociali e antropologiche, né tantomeno religiose”. Ma ciò che suona paradossale è che la querelle pro/contro l'islamismo sia potuta fiorire, e in una forma tanto scomposta, anche in un paese come l'Italia che, nella sua storia, ha mantenuto stretti contatti e buoni rapporti con nazioni islamiche come la Tunisia, il Marocco, la Giordania (la cui regina Rania, palestinese, svolge un importante ruolo nell'attività umanitaria internazionale), l'Egitto, la Siria, l’Iran e la Libia: tutti importantissimi partner economici e commerciali. Questo è il nodo del problema. “Non esistono motivazioni di sorta, afferma sempre Raffaello Berry, che giustifichino l'abiura della convivenza plurimillenaria che ha legato fra loro le popolazioni del bacino mediterraneo”. Non solo. Una politica estera informata ad una generica e diffusa contrapposizione con l'islamismo non farebbe altro che indebolire i governi amici moderati dei paesi mediorientali, concedendo mano libera ai fondamentalisti che - facendo leva sull'ignoranza delle popolazioni - potrebbero reclutare sempre più adepti alla causa del fanatismo religioso, con il risultato, per dirla con le parole di De Michelis, «…che proprio l'Italia si troverebbe ad essere pericolosamente esposta sulla prima linea di un confronto che rischia di degenerare pericolosamente in conflitto aperto e generalizzato». Il Mediterraneo è stato per millenni un bacino di civiltà multietnico, multiculturale e multireligioso. L'Italia oggi, sia per posizione geografica, sia per attitudine culturale, può tornare ad essere un ponte che colleghi l'Europa e il sud del Mediterraneo. Glielo può consentire uno strumento portentoso: il Partenariato euro-mediterraneo, area di libero scambio che dovrebbe assicurare, entro il 2010, pace e prosperità a tutte le Nazioni dell'area mediterranea. Un futuro di pace, che possa trasformare quest’area in un fattore di stabilità e prosperità a livello globale. Motivazione che, del resto, è esplicitata nelle prime righe della Dichiarazione di Barcellona (novembre 1995), così come nella posizione preparatoria espressa dal Consiglio Europeo di Cannes (giugno 1995), e negli orientamenti espressi nei consigli di Lisbona (giugno 1992), Corfù (giugno 1994), ed Essen (dicembre 1994). Esiste dunque un futuro comune per i paesi del Mediterraneo. Ma non un futuro pacifico assicurato da petizioni e da buoni principi, ma garantito da un meccanismo di promozione dello sviluppo e dalla progressiva integrazione dei paesi delle due sponde del Mediterraneo. In questi documenti è presente del resto la consapevolezza che tale processo sarà complesso e centrato su tre ambiti da sostenere contestualmente: un processo di integrazione politico e di sicurezza, uno economico e finanziario, uno sociale ed umano. Ma prima di addentrarci in un’analisi puntuale sul futuro del confronto euro-mediterraneo e la possibile cooperazione vogliamo ripercorrere un breve richiamo storico sui rapporti intercorsi da sempre fra i popoli rivieraschi. Cenni storici Qualsiasi discorso riguardo ad una cooperazione allo sviluppo rivolta verso l’Africa non può non passare attraverso l’Europa e l’Italia. Questa profonda convinzione ci deriva dalla stessa analisi storica di questi due continenti, ciascuno a suo modo grande, che da secoli si confrontano su quello “spazio comune” che è il mar Mediterraneo. Da una parte abbiamo l’Europa, una terra ricca di storia e di civiltà, che nel bene e nel male è stata protagonista e causa dei più importanti accadimenti storici. Nata dalle ceneri dell’Impero Romano, centro di una religione che divenne politica, terra di incontro e scontro tra potere temporale e spirituale, tra economia sviluppata e tradizioni ancestrali, tra democrazia e antiche monarchie, tra socialismo e liberismo. Nonostante tutto questo, i popoli europei sono riusciti a trovare un equilibrio che permette loro di convivere arricchendosi delle rispettive diversità, seppur pagando questo risultato al prezzo di due Guerre Mondiali. L’Unione Europea è proprio questo: un grande esempio di civiltà, unica nel suo genere: l’integrazione perseguita con coraggio da nazioni che hanno idee, tradizioni, culture diverse e spesso configgenti. Una diversità che è la forza dell’Europa, la chiave del suo fascino e del suo estro. Una diversità ancor più evidenziata oggi, dove l’allargamento ad est dell’Unione pone grandi problemi in materia di diritti umani e civili, e dove la recente crisi internazionale ha fatto emergere le grandi diversità di vedute che percorrono e tormentano da sempre questo continente, pur arricchendolo. Pur nelle sue eterne diversità, il continente europeo ha però sempre avuto il suo minimo comune denominatore, un punto d’incontro che ha permesso nei secoli la relazione continua e fitta tra le nostre diverse identità: questo è stato ed è il mar Mediterraneo. E allora, ecco che possiamo capire che cosa ci lega a doppio filo all’Africa, perché il Mediterraneo non è stato soltanto veicolo di scambi intraeuropei, ma anche e soprattutto “ponte” naturale su questo secondo, grande continente che condivide con noi le sue coste, e che si è sempre incontrato e scontrato con un’Europa che non poteva farne a meno. Da una parte dunque l’Europa, centro di una cultura che è prepotentemente esplosa rendendo la regione la “Patria comune” delle più importanti potenze del mondo (supremazia offuscata solo nell’ultimo secolo dall’ascesa degli Stati Uniti). Dall’altra la regione del Maghreb, la cui storia è persino più antica di quella europea ed è coincisa per secoli con quella dell’intero continente, ma che ha visto la sua millenaria cultura schiacciata da una situazione economica e sociale sempre più insostenibile, soprattutto a causa dello scempio della colonizzazione europea. Un rapporto difficile e complesso quello tra Europa e Maghreb, segnato più dallo scontro che da reciproca comprensione, ma comunque profondo, secolare, frutto di una vicinanza geografica che ha portato le nostre, pur diversissime, culture ad incontrarsi in un lungo, travagliato processo storico di comprensione reciproca. Un incontro iniziato nell’epoca dell’Impero Romano, quando i Romani costituirono nel territorio Maghrebino la provincia dell’Africa proconsularis, quando un’Africa ancora ricchissima diede a Roma letterati, giuristi, magistrati, imperatori. Anche successivamente, l’Africa resta centrale nel Mediterraneo: la storia del cristianesimo antico è anche storia africana: questo continente produsse martiri e teologi, ed i cristiani d’Africa parlavano latino quando a Roma la Chiesa era ancora di lingua greca. La conquista territoriale e religiosa dell’Islam non interromperà il legame tra i popoli mediterranei: gli stati italiani hanno continuato a commerciare e stringere accordi con i potenti Stati berbero-arabi. Nel XVI secolo, la natura dei rapporti cambiò: non più semplici contatti, ma diretta interferenza europea nel continente africano: inizia l’era delle grandi esplorazioni, prima scientifiche, poi di conquista. E la forza, la cultura, l’importanza dell’Africa cominciano a sgretolarsi, schiacciate dalla vera e propria conquista europea, che considerò il continente terra di razzia per rifornire di schiavi il nuovo mondo. I secoli successivi segnano un peggioramento della situazione: nel XVIII secolo si ha il primo intervento attivo dell’Europa in Africa settentrionale; nel secolo successivo l’interessamento aumenta, spostandosi anche sempre più all’interno. Il XX secolo nasce segnato dalla spartizione dell’Africa tra le potenze europee: un’Africa non più interlocutrice dell’Europa sul mar Mediterraneo, bensì oggetto da sfruttare fino all’esaurimento. La speranza rinasce dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con la decolonizzazione che porta alla progressiva indipendenza degli Stati africani, frutto del fiorire anche in questo continente delle idee liberali europee. L’Africa di oggi è il frutto di tutto questo, e la sua disastrosa situazione economica, politica e sociale è figlia anche dell’Europa. “Seguendo le tracce di fratel CHARLES DE FOUCAULD bisogna cogliere la nuova frontiera di un possibile, sorprendente rapporto tra Nord Africa ed Europa, tra cultura di radici cristiane e civiltà musulmana, fra un Vangelo considerato con rinnovata attenzione grazie a una Chiesa sempre più internazionalizzata nelle strutture e post-coloniale nei messaggi del Papa, e lo spirito di indipendenza dei Paesi che aspirano all’autonomia politica, economica, culturale.” (CORSERA 21/05/03). Dunque siamo al punto che ieri è ancora oggi ma non è ancora un domani definito. Analisi ultima Il progetto di partenariato di Barcellona di cui abbiamo sopra citato, ha aperto una pagina nuova nei rapporti tra Unione Europea e i paesi della riva sud del Mediterraneo: per la prima volta si è parlato di co-sviluppo, e non più di aiuto allo sviluppo. Ma l'entusiasmo iniziale, purtroppo, è andato via via scemando anche perché il Mediterraneo ha avuto sempre maggiori difficoltà a mantenere il posto d'onore nell'agenda dell'U.E. conquistato con la Conferenza di Barcellona, pure a causa degli eventi terribili e drammatici causati dall'implosione della Jugoslavia e dalle conseguenti guerre civili. Il calo di interesse si è ben evidenziato nella seconda conferenza euromediterranea, tenutasi a Malta nell'aprile del 1997, dalla scarsità di risultati conseguiti. Una concreta azione, che fa seguito alle intenzioni politiche iniziali, si è avuta con l'attuazione del programma MEDA 95-99. L'Europa ha investito 9.000 miliardi ai quali se ne sono aggiunti altrettanti dalla Banca Europea per gli Investimenti. Ma se confrontiamo questi valori con quelli che l'U.E. ha messo in campo per sostenere la politica di maggiore integrazione con i Paesi dell'Est europeo, si nota immediatamente il diverso peso, la diversa valenza strategica che l'U.E. attribuisce ai due processi politici. In termini di sostegno finanziario, le due politiche comunitarie hanno impegnato poco più di 4.500 milioni di Ecu per quella mediterranea ed oltre 11.000 milioni di Ecu per l'avvicinamento dei Paesi dell'Est. Ben si comprende allora Gianni De Michelis che, dalle colonne di Area, lamenta il pericolo che il Mediterraneo diventi una nuova cortina di ferro tra Occidente e Islam, con un’Europa sempre più proiettata verso Est lungo la tradizionale via di espansione dei popoli germanici. Con forza aggiunge: «Noi dobbiamo pretendere una dimensione Mediterranea dell'Europa: se si devono investire risorse per la coesione interna verso Est, lo stesso deve accadere per la coesione esterna verso Sud». Il rischio da evitare è quello che all'allargamento ad Est dell'Unione Europea faccia riscontro una attenuazione dell'impegno ed una riduzione delle risorse disponibili per l'area mediterranea. L'Europa si trova ora ad un bivio: riprendere con slancio rinnovato l'iniziativa per la stabilità dell'area del mediterraneo o rassegnarsi a subire le conseguenze di fattori destabilizzanti sempre più forti. Il futuro del partenariato, infatti, non è una questione settoriale e secondaria, ma sempre piùcoincide con il futuro della stessa Europa. Per cambiare lo scenario economico politico dell'area mediterranea occorrono interventi urgenti di politica economica molto più incisivi, che valorizzino il ruolo e la centralità delle piccole e medie imprese, principale volano per creare sviluppo e arginare i processi migratori che se continuano con i ritmi di questi ultimi anni potrebbero mettere in crisi gli stessi paesi europei più avanzati. Ma lo strano fenomeno in fatto di commercio nel Sud Est del Mediterraneo è il basso livello degli scambi commerciali. Bisogna lavorare per elevare tale livello. C'è un urgente bisogno di cambiare strada per creare l'area di libero scambio con i Paesi del Mediterraneo e l'Unione Europea su livelli globali. Per raggiungere questa meta c'è bisogno di cooperazione e di impegno politico su scala totale europea e forti spinte da tutte le forze del mondo industriale e commerciale. La domanda ora è: l’Ue avrà davvero la forza di caricarsi di questo fardello che le spetta, oppure la debolezza e l’ipocrisia avranno la meglio facendole voltare le spalle? E’ una sfida importante per un’Europa che si rende baluardo di una grande cultura di tolleranza, solidarietà e rispetto dei fondamentali diritti dell’uomo. Allo stesso tempo, è una sfida a cui l’Europa deve rispondere in tempi brevi, altrimenti non vi potrà rispondere più. Anche perché se allarghiamo la nostra visuale anche al continente subsahariano ci rendiamo conto della situazione disastrosa dell’Africa: senza un intervento serio ed efficace in tempi brevissimi, l’Africa morirà. E l’Europa, volente o nolente, sarà ampiamente responsabile del destino dell’Africa. Qualunque esso sia. L’Africa di oggi è un continente che presenta gravissimi caratteri di sottosviluppo: basso è il reddito pro-capite e bassi i livelli di produttività agricola; la base industriale è ristretta, corrisponde soltanto al 2 per cento della produzione industriale mondiale. I livelli di scolarizzazione e il tasso di mortalità sono elevatissimi. Come se non bastasse, negli ultimi decenni l’Africa è stata flagellata (e continua ad esserlo) da malattie endemiche che ne stanno seriamente minando il futuro e le possibilità di sviluppo. Decenni di guerre, carestie, fame, uso di armi batteriologiche e povertà hanno portato al dilagare di malattie mortali e davanti a cui la scienza medica, almeno allo stato attuale delle cose, è impotente. E’ in questo continente già tormentato che è nato il flagello del virus Ebola. E sempre qui si trova la stragrande maggioranza dei malati di AIDS (si calcola che il 98% delle persone colpite da questa malattia mortale vivono in Africa). Il continente africano fornisce circa il 30 per cento in valore della produzione mondiale di minerali e il 6 per cento di quella di petrolio grezzo: tali percentuali sono state in continua crescita negli ultimi vent’anni. Le risorse minerarie sono però distribuite in modo ineguale e ciò contribuisce a mantenere sensibili squilibri tra i vari Paesi del continente. La quota dei vari minerali nella composizione del prodotto lordo varia dall’1% del minerale di ferro in Algeria, al 62% del rame nello Zambia, al 52% del ferro in Mauritania, a quasi l’80% del petrolio in Libia. Vi è quindi un’Africa ricca a fronte di una popolazione africana povera. L’Africa, in effetti, copre il 95% della produzione mondiale di diamanti; il 75% dell’oro, il 50% di cromo; il 67% di cobalto ecc. Le fonti di energia sono immense: 32% di tutto il potenziale idroelettrico mondiale; 5,5% della produzione di petrolio con incrementi annui dal 12 al 15%. Se si considera anche le colture introdotte (caffè, tè, tabacco) e le riserve immense di legname pregiato (ebano, palissandro ecc.) per costruzione e usi industriali, si nota come le ricchezze del continente siano rilevantissime, ma non abbiano di fatto costruito benessere (spesso, neppure condizioni di vita accettabili) per i cittadini dei Paesi africani. Il depredamento delle risorse da parte di molti dei Paesi ex-colonialisti e l’ingerenza tuttora operante (spesso in modo "mascherato" = neocolonialismo) di tali Paesi sui governi degli Stati africani che man mano hanno conquistato un'indipendenza formale, il tipo di investimenti effettuati e mai rispondenti a criteri di reale sviluppo dei Paesi africani (mancano infrastrutture elementari, in particolare strade, ferrovie, porti, scuole, ospedali), la fuga dei proventi economici verso l’estero, la limitazione calcolata dell’accrescimento di produzione, hanno fatto sì che di tutte le ricchezze del loro continente proprio le popolazioni africane non divenissero beneficiarie. L’acqua, un bene che nelle nostre ricche società è forse il più comune, rappresenta una delle più gravi emergenze del continente africano. La mancanza di acqua rappresenta una delle principali cause di mortalità dell’Africa, e provoca alcune delle più gravi malattie che affliggono la regione. Probabilmente, l’acqua sarà la causa dei più gravi conflitti del terzo millennio, avviandosi a diventare il bene più prezioso per questo continente agonizzante. Storicamente, l’agricoltura dovrebbe essere l’attività principale dell’Africa. Migliaia di anni fa, prima della desertificazione, il territorio del Sahara era un’immensa area verde in cui prosperava l’attività agricola delle popolazioni locali, fonte di sostentamento dell’intera regione. La situazione è cambiata : sia per cause naturali (l’avanzata dei deserti) che indotte dall’uomo (lo scempio della colonizzazione), fino ad arrivare all’Africa di oggi che, pur godendo di condizioni climatiche più favorevoli per l’agricoltura rispetto a quelle europee e statunitensi, rappresenta la più grande sacca di povertà e di fame del mondo, dove ogni giorno migliaia di persone muoiono per mancanza di cibo. La formazione dei giovani nel settore agrario costituisce sicuramente l’investimento più appropriato nell’ottica dell’abbattimento della fame nel mondo. Ammirevole l’iniziativa intrapresa, ed esempio, da un Istituto Agrario di un piccolo Comune della provincia di Pescara, Cepagatti, dove sono attualmente ospitati per l’intero arco scolastico di 3-5 anni quasi 100 ragazzi provenienti da Paesi in via di sviluppo del continente africano; il progetto prevede il trasferimento di tutte quelle competenze indispensabili per lo sviluppo rurale. Soltanto mettendo le popolazioni di queste aree ora “depresse” nelle condizioni di provvedere alla loro sussistenza potremmo sperare in un miglioramento delle loro condizioni di vita. Un ruolo importante nel tentativo di strappare il maggior numero di persone dalla morsa della povertà viene giocato anche dai soggetti non istituzionali; non mi riferisco soltanto alle encomiabili ONG, ma anche alle miriadi di associazioni che, grazie alla solidarietà e all’impegno dei propri membri, riescono a regalare ogni giorno la speranza di vita a persone del Terzo mondo. È questo il caso dei “Rotary Club” di Algeri, con la sostanziale collaborazione di rotariani italiani, che, nell’ottica di contribuire a bloccare il fenomeno della desertificazione e di favorire lo sviluppo rurale, limitando così la fuga delle popolazioni, ha elaborato un progetto per la creazione di aree irrigue in una zona del Sahara algerino. Tale progetto permetterà agli abitanti dei villaggi interessati di coltivare i terreni e di assicurarsi così l’autosufficienza alimentare. Un primo bacino irriguo è stato completato e verrà inaugurato in forma solenne il prossimo 15 Giugno. Le grandi potenze promuoveranno una politica intelligente soltanto laddove interverranno per incentivare l’autosufficienza e l’indipendenza reale di questi Paesi, fornendo loro il know how e gli strumenti necessari per il compimento del primo passo indispensabile per sradicare la povertà nel mondo: l’autosufficienza. L’ultimo obiettivo espressamente citato dalla Commissione è il rafforzamento delle capacità istituzionali dei PVS; l’erogazione dei fondi e l’implementazione di piani di sviluppo presuppone l’esistenza di istituzioni solide ed affidabili con cui poter cooperare per la gestione dei progetti. La “good governance”, che include la gestione efficiente dei conti dello Stato, la lotta alla corruzione e il rispetto dei principi democratici, è un elemento che riveste un’importanza cruciale all’interno delle strategie di riduzione della povertà. Tutto questo come è potuto succedere ? La povertà e il sottosviluppo, eredità lasciate dalla colonizzazione, hanno portato gli Stati africani ad una situazione attuale di assoluta mancanza di infrastrutture, tecnologie, e conoscenze tecniche necessarie allo sfruttamento efficiente delle immense risorse agricole che il loro territorio possiede in potenza. L’Africa ha le risorse per fronteggiare il problema della fame, ma non ha le strutture e le conoscenze necessarie per farne uso. Negli ultimi anni, la situazione catastrofica in cui versa l’Africa ha portato allo sviluppo di mastodontici programmi di cooperazione allo sviluppo, gestiti in modo particolare dalle Organizzazioni Internazionali, ma in cui anche Europa ed Italia hanno trovato un loro ruolo. Purtroppo, per molto tempo questi interventi sono stati mal coordinati e ben poco efficaci, come dimostra il continuo, inarrestabile peggioramento della situazione africana. Urge un deciso cambiamento di rotta, urge, per quanto attiene l’Italia, il varo della troppe volte annunciata e mai realizzata nuova legge sulla cooperazione allo sviluppo, per cambiare l’approccio a questo problema che, come si è detto, si è finora rivelato ben poco risolutivo se non fallimentare. Bisogna aprire nuovi fronti di intervento, abbandonare una cooperazione ancora eccessivamente “multilaterale”, lasciata ad Organizzazioni Internazionali che spesso si rivelano enormi ed impotenti baracconi burocratici, per concentrarsi sulle nuove forme di cooperazione decentrata e di partenariato, fondamentali se si vogliono ottenere risultati efficaci. Bisogna coinvolgere direttamente gli italiani che lavorano e risiedono in quei Paesi, spesso lasciati a se stessi nell’affrontare i mille problemi che uno straniero trova ogni giorno nel vivere e lavorare in Paesi difficili, a rischio, con una mentalità molto diversa dalla nostra e spesso poco tolleranti verso ciò che è “diverso”. Proprio questa situazione di svantaggio iniziale, rende ancora più importante e degna di merito l’azione che gli italiani hanno portato e portano avanti in questi Paesi con serietà, costanza, impegno e sacrificio. Un’azione grazie alla quale gli italiani sono ormai da anni presenti come comprimari in Algeria e Tunisia, ex colonie francesi, e praticamente unici protagonisti in Libia, ma anche in Egitto, Marocco. Grazie alla serietà di questi italiani che sono riusciti ad essere allo stesso tempo internazionali (“l’altra Italia”, per usare la terminologia del Ministro per gli Italiani all’Estero, On. Tremaglia), la supremazia della Francia è stata affiancata e poi sostituita già negli anni ’70. Questo risultato è stato primariamente una conquista proprio degli italiani in Maghreb: una “nuova emigrazione” composta da ingegneri, architetti, tecnici, operai altamente specializzati impegnati a realizzare progetti di grande rilevanza, con cui contribuiscono allo sviluppo dei Paesi in cui operano e si guadagnano stima e rispetto. Quale risultato può essere più importante in un’epoca di tensioni e conflitti tra civiltà ? Ormai, bisogna considerare realtà un’idea fino a poco tempo fa neanche ipotizzabile, l’idea di una “identità mediterranea”, così attuale da fare affermare ad un funzionario algerino: “La Méditerranée, c’est Mare Nostrum!”. La nuova centralità attribuita al Mediterraneo dalla politica nazionale ed europea impongono all’Italia, in maniera sempre più urgente, di prendere esempio dai nostri connazionali d’oltremare, di incentivarne l’operato, di tutelarli in maniera efficace: in una parola, di farli sentire davvero italiani. Il contributo italiano nella regione Il continente africano ospita attualmente 130.000 nostri connazionali, distribuiti principalmente nell’area mediterranea e sudafricana. Il Mare Nostrum, culla della civiltà, è stato per anni il teatro nel quale i nostri antenati si sono incontrati per stringere relazioni di tipo politico e, soprattutto, commerciale. Ripercorrendo gli eventi storici fino ad arrivare ai giorni nostri, registriamo nei tempi più recenti due distinti flussi migratori degli italiani verso il continente africano. Gli emigrati italiani di prima generazione portavano con loro il sogno di conquistare nuovi possedimenti nonché la voglia di esportare la nostra cultura, le nostre tradizioni ed il nostro stile di vita. Questo sogno venne però polverizzato dalla seconda guerra mondiale, che relegò l’Italia ad un ruolo di secondo piano sulla scena politica internazionale. Tali eventi non sono stati sufficienti, però, ad impedire all’Italia di riprendere a stringere relazioni politiche, economiche e sociali con i Paesi di quel grande continente verso il quale la nostra penisola sembra essere geograficamente proiettata. Questo è, appunto, il quadro nel quale si è andato ad inserire il secondo flusso migratorio Nord-Sud. Questa “nuova emigrazione”, come già detto, è rappresentata prevalentemente dalla moltitudine di imprenditori e professionisti chiamati a curare l’attività sviluppata dalle numerose imprese italiane che operano con crescente successo nel campo dell’energia, della meccanica, della cantieristica o dell’idraulica. Si tratta, quindi, di un’emigrazione per lo più intellettuale e di alta professionalità, fatta di managers, tecnici specializzati, funzionari d’impresa i quali hanno dimostrato grande capacità di adattamento, facilitato forse dall’inevitabile “mal d’Africa”, e, soprattutto, una spiccata sensibilità verso la cultura dei paesi d’accoglienza. Proprio questa particolare capacità di relazionarsi con le popolazioni locali, basata sul rispetto e sulla parità, ha fatto degli italiani un interlocutore privilegiato rispetto ai discendenti delle vecchie potenze colonizzatrici europee. Innegabili sono, dunque, gli effetti positivi prodotti dai nostri connazionali a favore della loro Terra natia, non soltanto in termini economici, ma altresì d’immagine, tant’è che nel continente africano la nostra immagine viene associata agli ospedali, costruiti e gestiti con encomiabile dedizione e altruismo da missionari, medici, infermieri e volontari, alle scuole, (impiantate da Istituzioni religiose, quali gli Orionini, i Gesuiti, i Salesiani o sostenute dal “Comitato dei genitori”) e alle infrastrutture, quali il gasdotto che dall’Algeria porta energia in Italia o il tunnel ferroviario di El Achir, sempre nella regione algerina. A onor del vero, il rinomato spirito di adattamento degli italiani e la loro grande capacità di relazionarsi con gli stranieri non hanno sempre garantito una perfetta integrazione nei Paesi ospitanti, anche se questo è un problema che, incredibilmente, i nostri connazionali hanno sofferto e tuttora soffrono pure in un suolo “amico”, quale può essere quello di un partner europeo. Ancora oggi, infatti, assistiamo a degli episodi di discriminazione nei confronti degli emigrati italiani perpetrati da Stati “civili” ed altresì alleati: la questione delle espulsioni facili e dei soggiorni negati dalle autorità tedesche, oltre a preoccupare gli italiani in Germania dovrebbe far risvegliare dalle loro tombe i Padri fondatori della Comunità Europea. Con immenso piacere, misto ad indignazione, registriamo finalmente qualche passo in avanti in un ambito scottante quale quello della giustizia, o meglio, …della mala giustizia di alcuni Paesi extra-comunitari, nelle cui maglie, purtroppo, sono spesso rimasti imbrigliati dei nostri connazionali, ultimo, a ns. conoscenza, in Guinea nel giugno 2002 : per il ns. connazionale il rientro in Italia è stato possibile solo il 7 gennaio di quest’anno. Lo Stato Italiano dovrebbe assumersi un impegno concreto a garantire, in maniera effettiva, il rispetto dei diritti fondamentali a tutti i suoi cittadini che operano all’estero, a beneficio della stessa Patria. In questa direzione va richiamato l’impegno del Ministero per gli Italiani nel Mondo che, tramite l’UGL, ha potuto ricondurre al giusto atto di profonda e dovuta giustizia nei confronti di un dipendente della filiale di New York di una banca italiana licenziato senza giusta causa. Sarebbe bene che l’Italia promuovesse, concordasse e pervenisse in tempi brevi alla stipulazione di Accordi di cooperazione giudiziaria, come del resto auspicato dallo stesso Ministero della Guinea in occasione dell’episodio surriportato. Questo dovrebbe essere un imperativo con tutti quei paesi nei quali è presente la “nuova emigrazione” e che ricevono consistenti aiuti da parte italiana, anche con iniziative di Cooperazione. Bene del resto l’attività di questi mesi del Governo in termini di ratifiche ed esecuzione di convenzioni inerenti le doppie imposizioni (Uganda-Etiopia) o memorandum d’intesa (Trattato di estradizione, Sri Lanka) o ancora relativa ai trasporti internazionali di viaggiatori e merci in transito (Algeria). E che ne è della costituzione di un “Fondo di solidarietà”, attivabile in tempo reale in caso di eventi eccezionali, a favore anche di quei “tecnici a seguito d’impresa” ? Eppure non pochi ordini del giorno sono stati approvati dalle AP del CGIE succedutesi negli anni. E che ne è, ancora, della “coerente attenzione” per quelle eccezionali Scuole Italiane locali, tenute in piedi da “Comitati dei genitori” che da decenni, attraverso salatissime rette, assicurano ai figli quel diritto allo studio sancito solennemente dalla Costituzione Italiana? Eppure quelle Scuole (Marocco, Etiopia, Egitto, Eritrea, Algeria, Libia etc.) hanno garantito la realizzazione dell’intero ciclo formativo, dalle Elementari alle Medie Superiori, a molti giovani che, dopo gli studi universitari, compiuti magari in Italia, hanno conquistato posizioni professionali e sociali di primissimo piano; la riformanda legge 153/71 dovrebbe ritrovare nel nuovo articolato, di cui pure si sta occupando il CGIE, grande attenzione anche per queste realtà scolastiche. E poi ancora, che ne è di quel diritto all’assistenza sanitaria che penalizza gli italiani residenti nei Paesi extracomunitari che, rientrando temporaneamente in Italia, hanno diritto all’assistenza limitatamente ai primi 3 mesi? : molte ASL ignorano perfino tale limitata possibilità e le relative procedure per poterne beneficiare ! Eppure, i datori di lavoro delle migliaia di “tecnici a seguito d’impresa” versano regolarmente i contributi dovuti per tali prestazioni. Del resto, anche da un punto di vista previdenziale, sono loro largamente misconosciuti i diritti che dovrebbero maturare in quegli anni impegnati direttamente all’estero! Non si può, quindi, nascondere l’attuale vulnerabilità di queste comunità italiane all’estero, favorita da uno scarso sostegno e attenzione da parte delle Istituzioni nazionali. Tale lacuna è tanto più grave quando si verifica in un settore, quale quello commerciale, che maggiormente dovrebbe stare a cuore alle casse dello Stato. A fronte delle eccezionali opere di ingegneria civile, industriale, manifatturiere ed altre, cosa fa lo Stato italiano per sostenere la competizione finanziaria con i grandi gruppi di altri Paesi? Perfino la Spagna ed il Portogallo, in questo, ci hanno superato! Parliamo della rivitalizzazione di vecchi strumenti, quali la “Legge Ossola”, Mediocredito, Linee di Credito ed altri, di cui pure si è tanto parlato nell’ambito della Commissione Tematica del CGIE. Abbiamo la percezione, fin qui, che la sola SIMEST, o meglio, la nuova SIMEST ha cambiato pelle e dà segni di grande vitalità, dichiarandosi disponibile a raccordarsi con gli Organismi rappresentativi delle Comunità Italiane all’estero. A tal proposito, è bene sottolineare che le stesse Camere di Commercio Italiane all’Estero, nonché l’ICE, andrebbero concretamente ripensati. Anche la Formazione Professionale del Ministero del Lavoro pare stia concretamente riflettendo e perfezionando strumenti innovativi per la qualificazione e la riqualificazione delle nostre realtà in Paesi extracomunitari : in Etiopia (2001/2002) è stato reso accessibile e possibile alla Comunità Imprenditoriale italiana un programma d’informazione, di formazione e di assistenza tecnica per accrescere il livello di efficienza gestionale. La mancanza di investimenti a livello finanziario, culturale e assistenziale hanno provocato una sorta di strappo che oggi, finalmente, si sta cercando di ricucire: in questa direzione, infatti, sembra andare il progetto di riforma del Ministero degli Esteri, fondato sulla consapevolezza dell’importanza strategica che la diffusione della lingua, della cultura e delle tradizioni nazionali, il supporto alle esportazioni e all’internazionalizzazione delle imprese, ed infine la maggiore considerazione e valorizzazione degli italiani all’estero, che è stata avviata con il riconoscimento del diritto di voto, possono avere per una Nazione che intende estendere i propri “confini” al di là del mare. Per concludere, si può dire che abbiamo analizzato, in questo discorso, diverse tematiche connesse al problema della cooperazione allo sviluppo. Sarebbe bello, adesso, poter concludere dicendo che da quanto visto la situazione è confortante e fa sperare in una rapida soluzione dei problemi che affliggono l’Africa. Purtroppo, non è così. Quanto abbiamo visto ci mostra soltanto una realtà catastrofica, di sofferenza immensa che noi, Occidentali e abituati alle comodità offerte dal terzo millennio, facciamo perfino fatica ad immaginare. Come è possibile che mentre noi decidiamo in quale ristorante andare a cena, ci sia qualcuno nel mondo che nello stesso momento muore di fame ? Come è possibile morire di fame e di sete nel 2003 ? Eppure succede ogni giorno, anzi ogni ora. La ricchezza della nostra società ci mette a disposizione mezzi di comunicazione inimmaginabili fino a pochi anni fa. La tecnologia ci da possibilità di intervento senza limiti, in qualunque campo. La globalizzazione, che è prima di tutto comunicazione globale, ci ha resi sensibili conoscitori di ogni realtà con tutte le sue possibili sfaccettature. Nonostante questo, l’Africa continua a morire, lentamente, inesorabilmente, schiacciata da una situazione che diventa sempre più insostenibile. Nell’era dell’innovazione e dello sviluppo continuo e sfrenato, l’Africa regredisce, peggiorando di giorno in giorno. Non basta: l’aspetto peggiore è che l’Africa sta morendo nell’indifferenza del resto del mondo. Siamo troppo impegnati per interessarci dell’Africa: c’è sempre qualche priorità che ci costringe a distogliere lo sguardo dalla sua situazione. In un mondo che corre, l’Africa è stata lasciata indietro, e nessuno ha intenzione di voltarsi a guardarla, meno che mai di fermarsi ad aspettarla. Abbiamo la comunicazione globale, ma abbiamo perso la capacità di ascoltare, e non sentiamo il grido di un continente che è in agonia. Ci mettiamo l’anima in pace versando contributi ad Organismi Internazionali cui è stato affidato l’altissimo compito di salvare l’Africa e che dopo Assemblee oceaniche, presentazione di documenti interminabili e animate discussioni politiche ed ideologiche, puntualmente arrivano alla conclusione che la situazione sta peggiorando e che bisogna fare qualcosa. Davanti all’impotenza dell’ONU, che cosa si può fare ? De-tax, Piano Marshall – Energy tax Grande reticenza da parte dei potenti della Terra si riscontra allorquando si leva da più parti la richiesta della cancellazione del debito. In realtà, in molti casi, si tratta soltanto di tenere fede a degli impegni di cancellazione già in precedenza sottoscritti. Per quanto riguarda l’Italia, l’attuale Governo ha presentato una proposta molto più significativa della semplice cancellazione del debito: essa intende, infatti, favorire il processo di sviluppo sostenibile attraverso la riconversione del debito in programmi a valenza sociale ed ambientale. Alcuni PVS, come ad esempio l’Algeria, beneficiano già attualmente di tale strategia per lo sviluppo : un’Algeria duramente colpita dal terribile terremoto del 21 Maggio, con migliaia di morti. Non si può dimenticare l’idea lanciata in occasione del G8 di Genova dal Premier inglese Tony Blair di un “Piano d’azione pro Africa”, finalizzato a strappare dalla povertà il continente più gravemente malato, piagato dalla fame, dalle guerre, dalle malattie e dalla miseria. Tale “Piano Marshall per l’Africa”, la cui paternità è da attribuire all’allora onorevole, oggi Ministro Tremaglia, non ha trovato però spazio nel documento conclusivo del Vertice; per questa ragione, nonostante l’assunzione di responsabilità da parte dei potenti ed la maggiore sensibilità manifestata, almeno nei discorsi ufficiali, dai depositari delle sorti del mondo, l’idea di un impegno dei Grandi del pianeta a favore dell’Africa è rimasta lettera morta. Un’altra innovativa proposta avanzata dal Ministro dell’Economia Tremonti riguarda l’introduzione del cosiddetto meccanismo “de-tax”, che comporta l’esenzione dalle imposte dirette ed indirette per quelle donazioni effettuate dai consumatori destinando, su base volontaria, l’1% del valore degli acquisti a progetti di sviluppo. A differenza di altre forme di tassazione internazionale ipotizzate, tale sistema ha il vantaggio di non richiedere un approccio multilaterale, potendo infatti essere adottato unilateralmente da parte di ciascun Paese interessato. Sebbene questo tipo di approccio solidaristico risulta essere particolarmente interessante per il fatto che consente un coinvolgimento diretto dei singoli nel cammino verso una più equa distribuzione delle risorse, è tuttavia chiaro che ogni impegno assunto su base volontaria, anche nel caso in cui si tratti di promesse da parte dei Governi Nazionali, rischia di essere disatteso, condannando, di fatto, quelle popolazioni la cui vita è spesso appesa ad un sottilissimo filo di speranza. Appannandosi il mito dell’intervento pubblico e collocate in un lontano futuro le speranze di assistere ad uno sviluppo capitalistico autoctono, i Paesi industrializzati dovrebbero adoperarsi per trovare una via alternativa nel rapportarsi al problema del sottosviluppo. Nessuno può negare che in gran parte dei PVS e Paesi del Quarto Mondo vi siano risorse sufficienti non solo a sfamare le popolazioni locali, ma altresì a garantire loro una posizione di tutto rispetto nel mercato globale. Purtroppo, però, i frutti degli alberi autoctoni finiscono per cadere in una zona di “extraterritorialità”, lasciando così le popolazioni indigene a mani vuote. Essendo, questi Paesi sottosviluppati, ricchi di quelle materie prime di cui i Paesi industrializzati necessitano per alimentare il motore delle proprie economie, si potrebbe ipotizzare la realizzazione di un sistema che permetta di reperire quelle risorse finanziarie necessarie allo sviluppo degli “Stati fornitori”. Data la dipendenza reciproca tra il Nord ed il Sud del Mondo, motivata dalla necessità da una parte di risorse energetiche e dall’altra di cibo ed acqua, sarebbe auspicabile l’introduzione di un meccanismo che permetta ad entrambi, ma in particolar modo ai Paesi in via di sviluppo, di beneficiare di tale rapporto. L’idea è quella di far gravare su tutte le transazioni aventi ad oggetto risorse energetiche un’imposta di entità molto limitata cui potremmo dare il nome di “Energy tax”. Tale tassa andrebbe poi a costituire un fondo per lo sviluppo equo e solidale, una sorta di Banca morale, cui i Paesi sottosviluppati potranno attingere per l’implementazione di piani di sviluppo e crescita. Le risorse finanziarie reperite attraverso questa tassazione delle transazioni energetiche verrebbe, quindi, destinata all’attuazione di programmi di lotta alla povertà, di salvaguardia dell’ambiente, di tutela dei diritti umani, di sviluppo sociale e sostenibile, nonché di prevenzione dei conflitti. Soltanto colpendo i “beni necessari” per l’Occidente possiamo sperare di regalare la speranza in un futuro più dignitoso per queste popolazioni sottosviluppate e per l’Umanità tutta. Bisogna sollecitare l’azione non soltanto dei Governi, ma un’azione che impegni tutta la società civile. L’azione unitaria e decisa non di pochi burocrati che non possono far altro che stanziare fondi per quel capitolo di bilancio titolato “Cooperazione allo sviluppo”, ma dell’intera società, che deve alzarsi ed andare in aiuto non di uno straniero, visto come qualcuno distante da noi, ma di un fratello, a cui siamo legati da una storia millenaria attraverso quell’enorme lago che è il mar Mediterraneo. Non c’è altro modo. Tutti dobbiamo prendere coscienza di questo ed agire in prima persona, ciascuno a suo modo, rendendoci conto che la creazione di un’Unione Europea non deve, non può voler dire dimenticare un continente così strettamente legato al nostro e che non chiede aiuto: chiede di sopravvivere. Il “continente solidale” è proprio questo: acquistare coscienza che Europa ed Africa dovrebbero essere un’unica, grande realtà unita dal “lago” Mediterraneo, ed agire di conseguenza. Solo così un’Africa agonizzante potrà avere una possibilità di sopravvivenza, solo così un’Europa vecchia e stanca potrà trovare nuovo slancio: salvare l’Africa significa anche salvare noi stessi. In quest’ottica, l’Italia deve prendere coscienza del suo ruolo chiave: ponte sul Mediterraneo, vero punto d’unione, il nostro Paese deve capire che la sopravvivenza dell’Africa passa anche e soprattutto attraverso un suo impegno in prima linea. E’ questo l’unico modo per realizzare un sogno: il sogno di riportare l’Africa alla sua antica ricchezza, per farle riscoprire le sue tradizioni, la sua cultura, la sua grandezza che tanto hanno affascinato quei primi europei che l’hanno esplorata. Diversamente, questa terra misteriosa e bellissima, carica di passato e assetata di futuro, sarà perduta per sempre. Franco Santellocco AIE |